Terapia della visione
Critical text written on the occasion of the exhibition of Iulia Ghiță, He Failed to Save the One He Loved Most, at AlbumArte, Rome, 12 April – 5 May 2021.
[This text is in Italian]
Iulia Ghiță, He Failed to Save the One He Loved Most, 2021, exhibition view, AlbumArte.
Photo by Sebastiano Luciano. Courtesy AlbumArte.
Un’altra
Quando sei un bambino impari che ci sono tre
dimensioni
Altezza, larghezza e profondità
Come una scatola da scarpe
Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione
Il tempo
Hmm
Poi alcuni dicono che forse ce ne sono
cinque, sei, sette…
Stacco dal lavoro
Mi faccio una birra al bar
Guardo il bicchiere e mi sento contento.
Ron Padgett
Il lavoro con cui ho incontrato per la prima volta Iulia Ghiță, Running angle, 2016, era una doppia proiezione a grandezza naturale in cui il padre dell’artista, sacerdote ortodosso, appariva intento a vestire e poi svestire l’abito talare all’interno della sagrestia, prima e dopo la cerimonia, in un gesto rituale, ripetitivo quanto prepotentemente intimo. Il soggetto, pur consapevole di essere ripreso, si abbandonava ad azioni automatiche trasportato da una sorta di transizione emotivo-liturgica verso i simboli della sua pratica e verso la preghiera appena sussurrata tra sé e sé. Ho continuato a lungo a pensare a quel lavoro, così semplice e potente: per lo sguardo che l’artista ci offriva senza filtri e per la rara confidenza che trasformava noi spettatori in voyeur facendoci sentire l’inadeguatezza dell’imbarazzo misto a curiosità di un figlio che sbircia il proprio genitore durante un momento di estrema intimità.
Iulia Ghiță, Milk, 2015, watercolor on paper, 250 x 160 cm.
Photo by Sebastiano Luciano. Courtesy AlbumArte.
Quando diverso tempo dopo insieme a Iulia abbiamo cominciato a pensare questa mostra, ho sentito tornare a poco a poco quello sguardo, nella necessità del rapporto imprescindibile con le piccole cose, delicate ma pungenti, che si sedimentano da sempre nel suo lavoro. Oggi nello spazio espositivo convivono perciò diverse temporalità: lo sguardo incantato del primo incontro, la mostra di marzo 2020, sospesa ma dettagliatamente pensata, e la mostra di aprile 2021, pensata e poi necessariamente riplasmata. Nel mezzo un anno di pause, di scambi, di vuoti e di pieni, di lavoro e di incertezze, che hanno favorito la riflessione e la nascita di nuovi lavori risignificando quelli esistenti.
Nell’universo di Iulia Ghiță è necessario entrare in punta di piedi, con deferenza. La grazia che avvolge il suo lavoro è preziosa e necessita di un occhio sensibile e lento per essere percepita, un occhio in grado di fermarsi e di abbandonarsi al tempo dell’osservazione che come una pupilla nel buio si abitua per vedere lentamente emergere le forme.
Il lavoro di Iulia si rivolge alle cose così come sono. Non impiega artifici per farsi vedere, non costruisce menzogne. E proprio in questa apparente semplicità nasconde il suo intrigo, il dettaglio che destabilizza, la verità ovvia quanto spiazzante, l’epifania. Il lavoro di Iulia non pretende di spiegare un fatto, ma è quel fatto, è una visione sottile. Anzi, esso si pone propriamente nell’infrasottile, nell’inframince duchampiano così ben esplorato da Elio Grazioli nell’omonimo libro. Nei quadri, come nei disegni e nelle proiezioni nulla accade veramente. Non c’è una storia da raccontare, una narrazione, uno svolgimento. Ci sono invece immagini, suggestioni, apparizioni in cui il colore, la sfumatura, la luce, il riverbero, la varietà del supporto si animano di vita propria, creando dimensioni sinestetiche. Nelle atmosfere dei lavori pittorici e video respiriamo spazi bianchi esistenziali che ci interrogano. Questo universo fatto di piccole cose mi ha spesso portato a ripensare a una pellicola eterea quanto geniale di Jim Jarmusch, Paterson (2016), in cui la poesia, quell’atto di creazione inutile, senza scopo, a cui è tanto legato il protagonista e che si materializza nei versi di Ron Padgett, serve proprio a scavare nel deposito, a trovare la rima interna tra le cose, a far uscire un segno da esse e a ridonare a esse un nome.
Iulia Ghiță, Untitled. Piango di notte, 2020, chalk and graphite on paper, 200 x 140 cm.
Photo by Sebastiano Luciano. Courtesy AlbumArte.
Così i soggetti di Iulia sono spesso desunti dal quotidiano: i figli (Milk, 2015, Untitled, 2020), i dettagli di paesaggio catturato tra l’Italia e la Romania (LANDSCAPE2, 2017/2018 e LANDSCAPE4, 2018-20), gli oggetti anaffettivi (There was a beautiful vase at her home / The truth lies in the object, not in the word, 2019), i fiori appena accennati a grafite (Life from herself, 2020), i segni geometrici ripetuti come un mantra terapeutico (Closed Circle, 2018).
L’atto di fede è completo, quanto impenetrabile, e va a collocarsi nel mistero del quotidiano che da sempre il lavoro di Iulia pone al centro dell’attenzione. L’artista è interessata al rapporto/conflitto/tensione che si innesca tra il limite della misura umana e il tentativo di dare una forma finita a cose incomprensibili: dallo sguardo assonnato di un bimbo (suo figlio) ai dettagli minimi dell’ambiente naturale (una nuvola che scivola su un cielo azzurro, un filo d’erba che vibra nel vento, un bosco solcato da una tormenta di neve).
Misura umana e cose incomprensibili sono il binomio di questa tensione che genera il campo di ricerca su cui da sempre l’artista indaga e che, quest’ultimo anno con maggiore evidenza, è diventato orizzonte e limite di considerazioni quotidiane. Iulia esplora vie di conoscenza difficili da accettare: sogni, rivelazioni, premonizioni, profezie, visioni. L’artista si interroga su forma e collocazione che temi sconfinati come la fiducia e la conoscenza possono assumere.
Iulia Ghiță, He Failed to Save the One He Loved Most, 2021, exhibition view, AlbumArte.
Photo by Sebastiano Luciano. Courtesy AlbumArte.
La figura dell’arcivescovo San Luca, al mondo Valentin Feliksovič Vojno-Jaseneckij, vissuto tra il 1877 e il 1961, noto per le sue importanti conquiste scientifiche nel campo medico chirurgico e per la profonda pìetas che ha accompagnato le sue azioni sia nella vita laica che poi in quella consacrata, si trasforma nel cuore pulsante della mostra con la grande tela THEY BELIEVED THAT THE MERE TOUCH WOULD HELP THEM HEAL FROM ANY ILLNESS, 2021, che come un wall painting ne crea la pausa centrale. Valentin, da sempre legato all’arte, si arrende all’idea che questa non possa apportare un giovamento fisico immediato alle pene umane e di fronte alla sconfitta personale vissuta assistendo i feriti di guerra, intraprende gli studi in medicina. Dopo il dolore per la morte della moglie decide di convertirsi alla vita religiosa continuando a praticare con dedizione le sue capacità scientifiche (avanzerà importanti studi oftalmologici e contribuirà a mettere a punto la tecnica dell’anestesia locale), coniugandole però con estrema abilità alle necessità terapeutiche spirituali.
Cosa può l’arte davanti a situazioni critiche oggettive? L’artista sembra porsi un quesito esistenziale difficile e quanto mai attuale. Le vie di conoscenza, sembra dirci Iulia Ghiță, sono numerose e sfaccettate. Ma non bisogna temere di intraprenderle per dritto, senza filtri, assumendole nella loro apparente semplicità e nel loro relativo e insondabile mistero.
L’arte non può, forse, rispondere al bisogno fisico, tempestivo, immediato. Ma può e deve sviluppare forme alternative di conoscenza. L’artista può esercitare il suo potere chiedendo allo spettatore un atto di fede: la fiducia a valicare lo specchio e ad abbandonare dall’altra parte qualcosa di sé. Il dispositivo mostra diventa dunque un “ambiente sensoriale dove il materiale ‘dice’ dell’immateriale”, spiega Dario Evola in un recente intervento su “Engramma”, mentre l’arte si trasforma in una presa di coscienza utile a costruire tra l’animo umano e il mondo una corrispondenza di amorosi sensi che appaghi la sete di apprendimento connaturata all’essere umano.