Metafisica canaglia

by William Paolo Guarriello

An analysis triggered by the observation of the online exhibition Endless Nostalghia, curated by Treti Galaxie. Personal reflections are intertwined with philosophical questions and behavioral observations where film quotes dialogue with those of Einstein and Bergson. On the importance of memory as a real time value, through a writing that wants to be part stream of consciousness, part colloquial, part essay.
[This text is in Italian]

Endless Nostalghia, Abbey of Saint Galgano, Chiusdino, SI, IT, 2020.
Courtesy of 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Da più di un anno stiamo vivendo uno scenario da film post-apocalittico. Un anno. Un’eternità. Eppure, 365 giorni non sono poi così tanti rispetto l’età media di noi simpatici (ma neanche troppo) esseri umani. Che poi la nostra estate di sole, mare e festicciole l’abbiamo avuta. E poi abbiamo avuto, anzi abbiamo tuttora – dove per ‘tuttora’ s’intende il presente vivente durante il quale questo scritto si sta formando –, quelle famigerate zone colorate che ti fanno passare da una pseudo-normalità giallognola (o biancastra, addirittura) al ben più angosciante e rossastro scenario apocalittico di 10 Cloverfield Lane. Sì, tra le tante citazioni che avrei potuto fare per descrivere la zona rossa ho scelto proprio questa (perché l’ho visto ieri sera, non per altro; e se non avete visto il suddetto film, fatelo). Ad ogni modo, tralasciando inutili digressioni e precisazioni – che in ogni caso torneranno perché sì (“sì” sta per “sono fondamentali per mantenere quel piglio ironico senza il quale si rischierebbe di rattristire la giornata di chi legge”) –, il concetto è chiaro: ci siamo tutti, chi più chi meno, rotti i gioielli. A prescindere dal fatto che questi siano fatti di rame o d’oro (chi vuol capire capisca). Dunque, il punto di partenza di questo articolo sarà proprio questa rottura. Rottura di proprio tutto, senza sconti. Perché la banalissima e stratritata verità è che la pandemia, il “Corona”, ha rotto tutto. O forse no? Su questo interrogativo dall’aria che per qualcuno potrebbe essere – non sembrare eh – minacciosa, ci torneremo più avanti (e comunque non aspettatevi risposte).

Lucia Leuci, Sculpture (Piero), 2017-2020, resin, fabric, synthetic hair, stuffing, yarn, nacre, 64x50x16 cm; Elbow pads, 2020, resin, synthetic hair, nylon, plastic, variable dimensions; Mantella, 2020, fabric, acrylic paint, watercolors, variable dimensions.
Installation view in Endless Nostalghia, Madonna del Parto Museum, Monterchi, AR, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

So let’s go, bando alle ciance e iniziamo. Cioè, inizio (io) trascinato da un flusso di coscienza post seduta psicoterapeutica. Il che dovrebbe suggerirvi le nevrosi che state per leggere, nel caso non si fosse già capito (penso lo aveste quantomeno intuito).
Senza avere la pretesa di imbastire un discorso socio-politico-economico-antropologico – ecceteraeccetera – non soltanto perché non è l’intento di chi sta scrivendo questo schifo, ma anche e soprattutto perché il sottoscritto non è nella posizione di potere affrontare un discorso del genere, non essendo un esperto in alcuna di tali complessissime materie (per quello ci sono professori e tecnici, credo) –, ciò che mi limiterò a fare sarà mettere a parole sparse il disagio che mi pare di percepire quotidianamente, che sia dentro la mia testa, al parchetto dove porto a giocare il cane (una bellissima Beagle, se vi interessa), sulle chat di WhatsApp o su Microsoft Teams, dove assistevo fino a qualche mese fa alle lezioni universitarie. Chiedo venia, accademiche. Non sia mai che qualcuno mi corregga per essermi azzardato a confondere due cose così diverse (?), screditandone una o l’altra attraverso la sola inversione dei termini con i quali le si conoscono (tipo Serie A e Serie B, per farla semplice). E il disagio di cui scriverò non è tanto psicologico – per carità, quando sono in terapia penso sempre a quanto debba essere palloso sorbirsi i problemi degli altri (però è un bellissimo lavoro, questo sì) –, quanto culturale. O meglio, sono convinto sia un disagio da ascriversi in primo luogo ad una cultura che è di fatto fondativa dell’intero sistema di valori sociali all’interno del quale ci muoviamo (certamente) e viviamo (meno certamente). Va da sé che la psicologia c’entra, e pure tanto, col discorso culturale, neanche a dubitarlo; tuttavia, è prima di tutto il mondo attorno a noi a formarci prima e ad indirizzarci dopo, più o meno indirettamente, verso quelle strade di vita sulle quali infine ognuno di noi sedimenta anima e corpo (in quest’ordine).

Lucia Leuci, Sculpture (Piero), 2017-2020, resin, fabric, synthetic hair, stuffing, yarn, nacre, 64x50x16 cm; Elbow pads, 2020, resin, synthetic hair, nylon, plastic, variable dimensions; Mantella, 2020, fabric, acrylic paint, watercolors, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Madonna del Parto Museum, Monterchi, AR, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Dal primo giorno di lockdown, back to marzo 2020, ad oggi, la domanda delle domande, quella che puntualmente sbuca fuori alla fine o (e) all’inizio di qualsiasi discorso, che si stia parlando di politica o del pigliamosche reale dell’Amazzonia, è: “come sarà il mondo post-Covid?” Bella domanda. Davvero una bella domanda. Molto filosofica, anche. Comunque, le risposte oscillano più o meno dal “sarà un mondo migliore” al “sarà un mondo orrido e si salvi chi può”. Due estremi, insomma. E ha estremamente senso che siano queste le due “frange” polarizzanti del dibattito. Lo ha perché, semplicemente, il virus ci ha colpiti così nel profondo, mettendo in discussione la nostra quotidianità tanto dentro casa quanto fuori, che ora i nostri schemi mentali si sono definitivamente ridotti – o più probabilmente fossilizzati – alla distinzione tra bianco e nero, tra bello e brutto, tra giusto e sbagliato, tra felicità e infelicità, anche se c’è da ammettere che vi sia un po’ di stereotipo anche nel dire che tutto sia una sfumatura, che tutto faccia parte di una grande zona grigia tutt’altro che omogenea. Comunque, le cose brutte pre-Covid per molti potrebbero ora apparire meno brutte così come quelle belle potrebbero apparire più belle di quanto non lo fossero. Natura umana o, quantomeno, dell’uomo contemporaneo: dopo aver passato qualche ora sulla sedia comoda, ha una seria difficoltà a schiodarcisi. Il problema è se la sedia fosse realmente così comoda. Bang! Ecco qui l’insinuazione col potere di indurre la tremarella sia al più tronfio broker di Wall Street sia al porchettaro sotto casa (e tra i due non sono certo di chi comprenda meglio l’economia, ma questo è tutto un altro discorso). Alt, fermi tutti. Ma come, mentre tutto il pianeta si strugge pensando al virus cattivo e domandandosi se torneremo migliori, peggiori, migliori e peggiori, tu ti metti ad insinuare che la realtà pre-Covid non fosse poi così dolce? Ma va là, è ovvio che fosse dolce. Anzi, dolcissimissima. Che castronerie vai dicendo. Come direbbe Alessandro Borghese, “non è un buon inizio”. Eppure è un inizio. Riprendiamo.
Abbiamo la nostra sedia, che per ora non definiremo né comoda né scomoda, limitandoci a considerarla come ‘sistema’, e l’uomo, vale a dire noi tutti, che ci è seduto. Vive la sua vita seduto sul sistema e ha già deciso di morirci col culo sopra. A questo punto vale la pena indagare il perché di codesta decisione. Non sarà facile farlo, in fin dei conti si potrebbero offrire un’infinità di visioni diverse della questione (tutte complementari tra l’altro), ma l’intento – il mio intento – è quello di porre nella testa di chi leggerà questo delirio il seme del dubbio o, almeno, un briciolo di curiosità. Per raggiungerlo dovrò fare non uno, bensì svariati passi indietro nella storia.
Salgo sulla mia DeLorean metafisica e fiuuuum, now I’m back to the past.

Lucia Leuci, Sculpture (Piero), 2017-2020, resin, fabric, synthetic hair, stuffing, yarn, nacre, 64x50x16 cm; Elbow pads, 2020, resin, synthetic hair, nylon, plastic, variable dimensions; Mantella, 2020, fabric, acrylic paint, watercolors, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Madonna del Parto Museum, Monterchi, AR, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Guardando al passato occidentale (e basta, altrimenti andrebbe scritto un saggio lungo quanto il Silmarillion se non di più), che cosa esattamente è cambiato? Prime cose che potrebbero venire in mente: usi e costumi. Giusto; Tecnologia. Giusto; rapporto con la spiritualità. Giusto (ahahahah); politica e modo di fare politica. Giusto; economia. Giusto; arte. Giusto. Inutile continuare, la lista è infinita. In sintesi: la società è cambiata. Ed è cambiata trascinata da un progresso socio-politico che si è realizzato di pari passo allo sviluppo, al miglioramento della tecnica. Tecnica intesa come capacità di fare e risolvere problemi per agevolare, almeno teoricamente, la vita degli uomini; tecnica intesa dunque come sviluppo al servizio dello sviluppo. È tra i primi sottocapitoli del capitolo di qualsiasi libro di storia dedicato all’industrializzazione: l’era industriale coincide con il progressivo abbandono della manualità a favore della macchina, così come il post-modernismo coincide con il passaggio, anche questo progressivo, dal fisico al digitale. E vabbè, quindi? Quindi abbiamo un primo elemento di interesse per il nostro discorso, ovvero che viviamo a tutti gli effetti nell’età della tecnica. Attenzione però: se proprio volessimo essere puntigliosi, potremmo dire che la tecnica da sempre accompagna l’umanità nella strada che dovrebbe condurla verso un futuro auspicabilmente più roseo. È ovvio. Già Socrate e Platone, per non scomodare altri illustri filosofi classici, avevano fatto della techne un punto cardine del loro filosofare, tanto che il primo – sia lodato per averci dato la maieutica, senza la quale il giornalismo sarebbe probabilmente un buco oscuro o proprio un’altra cosa (non sarebbe interessante capire cosa? Tema per un ulteriore delirio) – evidenziava come gli artigiani avessero conoscenze più fattuali rispetto a quelle tanto conclamate da politici e poeti (mi verrebbe da dire che nessuno cambia mai realmente, la storia è un continuo ripetersi). Tecnica come questione anche gnoseologica, allora.
Ad ogni modo la tecnica così come la intendiamo oggi ha acquisito una dimensione filosofica definitiva – ma soprattutto di nostro interesse – soltanto grazie a illuministi e positivisti che, con la loro fiera fiducia nella scienza e nel progresso, fecero infuriare i ben più tragici, dannati e ormai sparuti romantici(sti). Non solo: gli ‘ottimisti della filosofia’, per quanto possa sembrare assurdo, hanno contribuito a rafforzare un intero sistema economico basato sul capitale!
Fermo, fermo, fermo. Hanno rafforzato cosa? Time for another step.

Namsal Siedlecki, Trevis Maponos, 2020, argento, dimensioni variabili. Veduta dell’installazione in Endless Nostalghia, Piazza delle Sorgenti, Bagno Vignoni, SI, IT, 2020. Courtesy dell’artista, Magazzino, Roma, 101 Numeri Pari e Treti Galaxie. Foto: Flavio Pescatori

Se è vero che in una visione nichilista della storia e dell’esistenza tutta non vi sia possibilità di giungere ad una verità che possa definirsi tale a priori a causa dell’effimeratezza dell’uomo e dei suoi svariati sistemi di pensiero – i quali, essendo stati elaborati a partire da teorie profondamente arbitrarie, non permetteranno mai di comprendere il senso reale delle cose, rendendo dunque infelice l’esistenza di chiunque (accettatelo) –, allora appare chiaro come la tecnica, che fa le cose oggettivizzandole per mezzo della razionalità, sia la soluzione al problema gnoseologico proprio perché riduce la conoscenza alla necessità di sviluppo, il quale è invero lo scopo ultimo di quel sistema economico (il nostro) fondato, come aveva correttamente intuito Marx, sul valore di scambio dei prodotti e non su quello d’uso (e infatti l’economia è il sistema più puro che possa esserci; certamente più puro del baratto, per citarne un altro sperimentato in tempi lontani lontani). E tale necessità è intrinsecamente vincolata alla volontà di potenza del sistema, giacché se non vi fosse quest’ultima verrebbe meno l’utilità di una crescita economica che non sia solo stabile, se non addirittura in espansione costante (il carattere dell’economia è tutt’altro che umile).

Namsal Siedlecki, Trevis Maponos, 2020, silver, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza delle Sorgenti, Bagno Vignoni, SI, IT, 2020. Courtesy of the artist, Magazzino, Rome, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Semplificando: la tecnica supera il problema gnoseologico perché, asservendosi all’economia, non risponde più alla domanda “cos’è?”, ma alla domanda “perché?” e ancor più precisamente “a quale utilità?”. Ed essendo la tecnica lo strumento privilegiato del sistema economico, la risposta è presto data: perché i prodotti della tecnica, e la tecnica stessa, servono allo sviluppo; e quest’ultimo è quantificabile, dunque reale (in una dimensione matematica che tuttavia è virtuale) al di fuori della soggettività individuale, tant’è vero che il valore di scambio così come lo concepiamo oggi è un valore oggettivo, non soggettivo, che si dà all’oggetto dello scambio (e in questo i modelli matematici ad esempio, con la loro validità scientifica indipendente dall’uomo, possono essere buoni alleati del mercato). E per esistere, questo sviluppo ha bisogno di quel desiderio indotto dall’economia attraverso pubblicità, marketing e tutti gli altri mezzi che già conoscete. Insomma, attraverso il mercato stesso. Ed è quel desiderio che poi conduce al feticismo per il prodotto, che assegna allo stesso un valore ‘metafisico’ che va oltre l’oggetto stesso. Dunque l’economia annulla in e per se stessa la domanda gnoseologica offrendo una risposta nei termini di un utilitarismo che serve esclusivamente se stesso e il mercato, ma non gli uomini. Secondo l’economia non c’è più bisogno di chiedersi quali siano i limiti della conoscenza – che andrebbero indagati nel rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto – perché l’unica conoscenza utile all’economia è limitata solamente all’utilità delle cose. E dato che l’economia, per mezzo della tecnica, dispone non soltanto quale sia l’oggetto utile, ma anche l’utilità di se stessa, viene meno l’interrogativo di cosa sia effettivamente quell’oggetto e in definitiva l’economia per l’individuo. Al sistema economico non interessa minimamente la natura delle cose e come questa sia determinata dall’uomo; gli interessa invece la loro utilità in termini di crescita economica. E se qualcosa è utile al mercato, è necessaria. Se non è utile… beh, se ne può fare a meno. Il ‘necessario’ si sostituisce così al ‘reale’, l’elemento dell’indagine gnoseologica. Ecco perché il sistema economico è oggi più che mai autoreferenziale: dato che ogni aspetto della vita umana è declinato all’utilità delle cose in rapporto alla crescita economica sia collettiva sia individuale, la soggettività del singolo, in relazione al meccanismo economico, non conta più nulla. Dunque non è l’economia a servire l’uomo, ma l’uomo a servire l’economia.
Non stiamo trattando altro che del “pensiero calcolante” di cui parlava Heidegger, quella forma mentis che, generatasi dal cadavere di Dio e incoronata dall’economia, macella la capacità di ragionamento degli uomini costringendoli a sostituire il pensiero col calcolo; perché si sa, ogni aspetto della propria esistenza va perfettamente calcolato, pianificato e ponderato in termini di utilità e nient’altro. Ma se ragioniamo soltanto per mezzo di calcoli, cosa ci distingue dalle macchine? Ecco arrivati al nocciolo della questione: per quanto possa sembrare scontato – e non lo è affatto, sebbene sia una verità di cui ormai sono a conoscenza anche i marmi grezzi non ancora entrati in contatto con le mani umane –, per l’economia siamo macchine che al contempo producono e consumano agendo in una dinamica eternamente circolare (eccolo l’eterno ritorno… al nulla). Siamo oggetti. Ecco perché cade – quantomeno nell’ottica del sistema economico – la domanda gnoseologica. E perché cade anche la filosofia stessa, che ha visto il proprio declino a partire proprio dal passaggio graduale da un sistema incentrato sull’uomo ad uno incentrato sull’oggetto, sull’economia, sullo sviluppo per lo sviluppo.

Namsal Siedlecki, Trevis Maponos, 2020, silver, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza delle Sorgenti, Bagno Vignoni, SI, IT, 2020. Courtesy of the artist, Magazzino, Rome, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Riguardo il declino del problema gnoseologico, in Matrix c’è una scenetta particolarmente carina che lo descrive con perfezione disarmante: ad un certo punto Cypher – membro della resistenza contro le macchine che hanno schiavizzato l’umanità relegandola all’interno di un sogno virtuale collettivo – baratta la sua libertà da Matrix, tradendo i suoi compagni e abbandonando il cammino verso la verità (che in questo caso coincide con la liberazione stessa dalla schiavitù), in cambio di una vita tranquilla ed economicamente stabile. Mentre accetta il compromesso, mentre tradisce la sua essenza di uomo libero, mangia una bistecca. Una bistecca finta, virtuale, onirica. La mette in bocca, la assapora… e dice all’agente Smith: “Dopo nove anni, sa che cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene”. L’agente Smith risponde: “Allora siamo intesi”. Semplice, chiaro, diretto. Più facile di così non si può. Da quel momento, per Cypher la questione gnoseologica non si pone più. Non ha più intenzione di vedere quant’è profonda la tana del bianconiglio. E non vuole neanche ricordare di esserselo domandato per buona parte della sua vita, tant’è vero che per accettare l’accordo pone come condizione imprescindibile la perdita della propria memoria, della consapevolezza che quelle gustose bistecche non sono né bistecche né nient’altro. Per Matrix questa è la vittoria: fare sì che nessuno si interroghi più su cosa sia reale e cosa no. Nel sogno virtuale, nell’anestetizzazione collettiva con conseguente rincoglionimento, gli uomini non prendono neanche in considerazione la possibilità di porsi tale interrogativo, poiché soltanto una è la questione fondamentale: l’utilità delle cose e il soddisfacimento di bisogni e di desideri. Matrix soddisfa entrambi e così tiene buoni tutti. L’economia è Matrix?
Fatto sta che “l’ospite inquietante” di Nietzsche, il nichilismo che si aggira per la casa già da un bel pezzo e che oggi si guarda le partite con noi sul divano, non è certo figlio di una nevrosi collettiva scaturita dalla noia per la mondanità o per la mancanza di cambiamento, perché Dio è morto ed è stato l’economia ad ucciderlo. Possono pure cambiare i sistemi politici, ma lui è lì accanto a noi che ci sorride beffardamente mentre tentiamo di comprendere perché l’economia non segue il passo della politica (semmai è il contrario). La risposta ai nostri dilemmi post-pandemici appare così fin troppo ovvia e imbarazzante, ed è inutile girarci intorno: se prima non eravamo capaci di guardarlo in faccia quest’ospite inquietante, per il semplice fatto che la maggior parte di noi aveva sempre trovato il modo di evitarlo (il ‘modo’ sarebbero le responsabilità che superata una certa età si intromettono prepotentemente nella nostra vita dicendoci che è il momento di smetterla di perdere tempo a pensare e che da adesso in poi c’è da passare all’azione), da un anno a questa parte siamo stati costretti a farlo. Ciò che vogliamo indietro non è la nostra normalità. Cioè, sì, certo. Però, se ci fermiamo un attimo a rifletterci, ciò che veramente, nel nostro profondo, vogliamo indietro, è la possibilità di non pensare al fatto che nella nostra vita di normale c’è ben poco; di non pensare al fatto che quella sedia che ormai puzza di sudore anale non è per niente comoda; di non pensare al fatto che “c’è qualcosa di terribilmente marcio in questo paese”, per citare un noto fumetto la cui trasposizione cinematografica è divenuta ancor più nota e demagogizzata (purtroppo è il destino di tantissime opere popolari). Questa è la nostra normalità. Questo è il disagio che trovo al parchetto dove porto il cane, sulle chat, nelle aule virtuali, su YouTube, a casa, in parlamento, negli studi televisivi, al supermercato, dal barbiere, ovunque. Questo è il problema culturale, contare meno di zero; preoccuparsi di restare chiusi in casa, quando in realtà si era già fuori dalla storia. Fine. Che poi sia una visione semplicistica, magari, poco (mi) importa. È quello che sento, è quello che vivo, e quindi è vero.

Giorgio Andreotta Calò, Medusa, 2016, serie AC, ed.1AP (3+2AP), bronze, lost wax casting, 92 (h) x 28 x 25 cm. Installation view in Endless Nostalghia, Sunken Church of Santa Maria in Vittorino, RI, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Così sono arrivato alla conclusione dopo quello che sembrava essere soltanto un lunghissimo preambolo storico-filosofico. A prescindere dai decreti, a prescindere dai cambi di governo, a prescindere dalla curva epidemiologica, a prescindere dalle proteste per le strade, a prescindere dalle riaperture, a prescindere dai vaccini (se lo rifiutate siete stupidi) e a prescindere dal fatto che io mi senta meno che insignificante. Anche perché solo la conclusione è davvero MIA (ci tengo a scriverlo in caps lock), dato che tutto il resto si trova già scritto nelle opere dei nomi che ho citato e in ogni angolo dell’Internet. Ma questo è un delirio, per l’appunto. E i deliri ce li fanno venire gli altri, mica noi stessi (homo homini lupus). Sono arrivato alla mia conclusione di come le cose sono per quello che sono, però. Non a come potrebbero – o dovrebbero, boh – essere. Perché sì, l’ospite inquietante è qui accanto a me, ma ciò non significa che io non possa credere in qualcos’altro anche se Dio è morto e non se ne vedono più neanche le ossa. E qui entrano in gioco tre cosette distanti anni luce e vicine di centimetri: il tempo, il suo amico Henri Bergson e una mostra virtuale che non è una mostra ma non è neanche una non-mostra, vale a dire Endless Nostalghia di Treti Galaxie (l’art project fondato da Matteo Mottin e Ramona Ponzini).

Giorgio Andreotta Calò, Pinna Nobilis , 2016-17, serie N, ed. unique, white bronze, lost wax casting, 68 x 27 x 13 cm. Installation view in Endless Nostalghia, Sunken Church of Santa Maria in Vittorino, RI, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

In breve: nel 1905 Einstein pubblica la sua Teoria della Relatività Ristretta, nel 1915 espone quella Generale e nel 1922 esce un libro chiamato Durata e Simultaneità nel quale Bergson, filosofo purissimo, si complimenta con Einstein, scienziato purissimo, per la sua rivoluzione, mandandolo al contempo (ed educatamente) a fanculo. Poi i due si incontrano a Parigi il 6 aprile del 1922 davanti ad una platea di filosofi e scienziati. Einstein è un tantino adirato, Bergson molto rilassato (tant’è che parla soltanto per mezz’ora di qualcosa di cui avrebbe potuto parlare per tutta la vita). Dicotomia curiosa: la scienza, dall’alto dei suoi calcoli incontestabili, prende sul personale le considerazioni metafisiche che un filosofo, vale a dire uno che di mestiere mette in dubbio qualsiasi cosa nella ricerca di domande e non di risposte, fa riguardo ad un fatto fisico, cioè il tempo. Fisico per i fisici, per inteso. Ma che dice ‘sto Bergson? Apparentemente niente di nuovo o eccezionale: il tempo non è un fatto fisico esterno alla percezione umana – è anche quello, certamente –, bensì una dimensione che nella sua oggettività scientifica, dietro e davanti le lancette dell’orologio, resta innegabilmente soggettiva. La “Durata”, come la chiama il filosofo parigino, è il tempo che PER NOI è tempo e non ciò che è tempo secondo una virtualità matematica. Percepiamo e comprendiamo il tempo soltanto perché abbiamo memoria, desideri e paure, in pratica. Prima dello scoccare dell’orario, del momento esatto, in cui avrei dovuto sostenere l’esame della patente, avevo la sensazione che il tempo stesse scorrendo al doppio, al triplo e poi al quadruplo della velocità. E l’ansia aumentava di pari passo coi secondi, anche quelli velocizzati. Quando sono salito in macchina per iniziare il mio esame, invece, mi sembrava di essere finito dentro La persistenza della memoria di Dalì. Mi sentivo deformato dalla percezione iper-rallentata che avevo del tempo. 0.75x, 0.5x, 0.25x… Certe giornate sono come le poop su YouTube. Vabbè.
La persistenza della memoria. Credo, anzi è appurato a questo punto, che Dalì fosse della stessa opinione di Bergson. Non so se lo ha mai detto eh, magari sì. Però l’ho appurato io in questo momento. Sinceramente non ho indagato sul fatto perché mi è venuta così questa citazione, de botto. Però ha tantissimo senso. In quegli anni il mondo stava cambiando velocemente e la Relatività aveva scosso tutti, ma proprio tutti. Come poteva l’universo dell’arte, con tutta la sua élite convintissima delle proprie idee e piena di sé, non rifletterci su, più o meno consapevolmente? Che poi oh, manco a dire che Bergson avesse insultato Einstein nel suo libro. Anzi, lo sostenne pure. Aggiungendo:

Che poi si rimanga nel vago o che si vada alla ricerca della precisione, l’idea di un tempo universale, comune alle coscienze e alle cose, è comunque, in entrambi i casi, una semplice ipotesi. È una ipotesi che tuttavia io credo fondata e che, secondo me, non contiene nulla che sia incompatibile con la teoria della Relatività.

Sembra un po’ un’accusa passivo-aggressiva, non credete? Come se nella testa di Bergson al posto di quel “si” prima di “rimanga” ci fosse la parola “Einstein”. Riproviamo così allora:

Che poi Einstein rimanga nel vago o che vada alla ricerca della precisione, l’idea di un tempo universale, comune alle coscienze e alle cose, è comunque, in entrambi i casi, una semplice ipotesi. È una ipotesi che tuttavia io credo fondata e che, secondo me, non contiene nulla che sia incompatibile con la teoria della Relatività.

Giorgio Andreotta Calò, Medusa, 2016, serie AC, ed.1AP (3+2AP), bronze, lost wax casting, 92 (h) x 28 x 25 cm; Pinna Nobilis, 2016-17, serie N, ed. unique, white bronze, lost wax casting, 68 x 27 x 13 cm. Installation view in Endless Nostalghia, Sunken Church of Santa Maria in Vittorino, RI, IT, 2020. Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Quindi Einstein era rimasto nel vago alla ricerca della precisione (matematica). Beh, che dire. C’è troppo da dire. Capite? La Relatività una cosa vaga! Troppo, troppissimo da dire. Sicuramente, se vado da un bambino e gli dico che passato e futuro non esistono, che il tempo è simultaneamente relativo e molteplicemente scomposto, non capirà nulla di quello che sto dicendo e alla domanda “hai capito?” lui risponderà “sì” giusto per accontentarmi mentre rivolge lo sguardo al Godzilla e al transformer che stava facendo scontrare un attimo prima che gli rivolgessi la parola. Oppure mi dirà di “no” e tornerà comunque a giocare con Godzilla e il transformer. Cioè, tralasciando il fatto che non lo capisce, a cosa gli serve saperlo? Tanto lui, mentre sotterrerà la povera sorellina sotto la sabbia cocente del 6 luglio, continuerà ad aspettare il Natale – o meglio, i regali di Natale – e il tempo gli verrà deformato da quest’aspettativa, da questo desiderio. Ma che je frega che il futuro non esiste e il tempo scorre uguale per tutti indistintamente? Ecco.

Monia Ben Hamouda, Blair, 2020, fabric, wood, curry powder, curcuma powder, acrylic paint, plaster, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza del Campidoglio, Rome, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Adesso facciamo l’esempio di un adulto che si sveglia alle cinque di mattina per riuscire nell’impresa titanica di prendere il Cotral in tempo, facciamo tra le 6:30 e le 6:45, per sopravvivere al traffico della Nomentana. E facciamo che io prenda quello stesso autobus e che mi sieda accanto a lui; e che nella noia del traffico che in ogni caso non siamo riusciti ad evitare, io inizi a parlargli della Relatività. Ora, se è un tipo, come dire, ‘aperto al dibattito’, magari mi tiene pure il gioco per un po’. Ma se, come è più probabile che sia, si tratta di un tipo stressato da quella mondanità e da quella routine che oramai lo hanno sotterrato come il bambino di prima aveva sotterrato la sorellina, e poi calpestato e deriso sotto i colpi dell’economia (la quale ha molto a che vedere col tempo dato che, beh, ce l’ha tolto), allora cambierà posto nel giro di massimo quattro minuti oppure, dato che cambiare posto di punto in bianco mentre uno ti parla non dà certo l’idea di educazione e cortesia, mi farà capire con una frase fatta tipo “eeeeh, che tocca fa’” e uno sguardo al cellulare che la conversazione, oltre a non essere interessante, è anche chiusa. In sintesi: non je ne frega un cazzo.
In entrambi i casi, cioè quello del tipo aperto e quello del tipo chiuso, questo tempo di Einstein è letteralmente inutile. È inutile. È inutile per la loro vita, è inutile per i loro pensieri, è inutile per le loro emozioni, è inutile per i loro sentimenti, è inutile per i loro problemi ed è inutile per qualsiasi altro aspetto della loro esistenza. E lo è per il semplicissimo e banalmente intuitivo fatto che il tempo, in realtà, è la nostra stessa esistenza. Ecco perché, se non esistesse la memoria – il ricordo di ciò che è stato e l’aspettativa di ciò che potrebbe essere – impazziremmo tutti come impazzivano le cavie mandate indietro nel tempo nel film La Jetée (di cui molti avranno visto il remake all’americana, L’Esercito delle 12 Scimmie di Terry Gilliam). L’unico che sopravvive al viaggio nel tempo è anche l’unico che ha un ricordo, un’immagine, per cui lottare. Così come Cooper, in Interstellar, non percepisce alcuna differenza nello scorrere nel tempo sebbene si trovi all’interno del buco nero Gargantua (e nei buchi neri il tempo non scorre, parola della Relatività). Non la percepisce perché l’unica cosa che dà senso al suo tempo e quindi alla sua esistenza è il ricordo della figlia Murph, della promessa che le ha fatto.
Dunque sì, che si tratti di bambini o di adulti, della Relatività non frega una beneamata minchia a nessuno. E non frega neanche a mio padre, a mia madre, a mio fratello, a mia sorella, ai miei amici e a chiunque altro a cui io tenti di spiegarla, incluso il mio psicoterapeuta. Perché è roba da filosofi e scienziati, al limite da artisti e poeti; è roba da pippe mentali, roba che poi non apporta nulla al quotidiano, all’utile essenziale per sopravvivere. Eccolo qui il problema: Bergson aveva paragonato la Relatività al nichilismo perché ciò che Nietzsche aveva constatato scrivendo della morte di Dio, Einstein lo aveva direttamente provocato con la sua scoperta. Entrambi sono assassini della metafisica, con la differenza che il primo non toccava poi così tanto l’ambiente scientifico, l’ambiente che seguiva gli ordinamenti della tecnica. Hanno contribuito ad uccidere la metafisica consegnando, a lavoro fatto, le chiavi della cultura all’ospite inquietante. E così la metafisica, quella vera e non frutto del feticismo per il prodotto, se n’è andata per lasciare posto alla perfezione del calcolo e alla freddezza del fatto constatato. E così della metafisica non è rimasta che un’immagine sbiadita, martoriata, derisa e tristemente stereotipata.

Monia Ben Hamouda, Blair, 2020, fabric, wood, curry powder, curcuma powder, acrylic paint, plaster, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza del Campidoglio, Rome, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Eppure, a rifletterci, in seno al cinismo che ci circonda e che ha generato metastasi ovunque, a nessuno sembra importare realmente qualcosa neanche della Relatività, o della morte di Dio o del dominio dell’economia e della tecnica, anche se tutti, allo stesso modo, ne subiscono l’influenza. Questo è il paradosso che si nasconde quatto quatto dietro il problema identificato da Bergson. Perché sì, possiamo anche vedere il nichilismo e la Relatività come simboli di un decadimento definitivo della società e dei suoi valori, ma non possiamo tuttavia negare le buone e in fin dei conti giuste intenzioni che hanno spinto e addirittura preteso la loro stessa concezione. Non penso proprio che Einstein abbia pensato alla Relatività con l’intenzione di consegnarci in pasto alla depressione cosmica derivata da una prospettiva nichilistica del tempo. Ma il paradosso sta nel fatto che queste cose così ‘alte’ abbiano pure perso la loro utilità nel grande meccanismo del mondo che esse stesse avevano contribuito a creare, perché nel tempo sono state svalutate del loro valore originario fino a divenire nozioni delle quali in fondo si può fare a meno perché a tutto ci pensa il mercato. Nel senso: è chiaro che la Relatività sia fondamentale in ambito fisico, mica so’ scemo, ma alla fine neanche gli si dà tutto questo risalto nella quotidianità. E mi sembra un peccato, perché se ne potrebbe parlare più di quanto si parli della borsa di Tokyo. Tuttavia non genera nulla, così come non genera nulla la morte di Dio. Non si parla, non si dialoga, non si riflette su queste cose se non dentro le aule (dove i professori non sanno spiegarle o più semplicemente non ne hanno voglia, e dove gli studenti sono distratti dall’estetica del mondo più che dalla sua anima). Okay, il nostro mondo non può essere certo quello degli Houyhnhnm di Jonathan Swift, ma neanche un mortorio, un deserto di anime silenti che ripetono azioni stereotipate senza neanche comprendere perché lo facciano. E allora, nell’animo del singolo, al massimo delle possibilità, queste verità scientifiche, filosofiche o come volete chiamarle, non sono che concezioni astratte, nozioni da sapere nel caso si voglia fare bella figura in qualche caffè letterario. È molto triste; è molto triste che nessuno mi dia veramente ascolto quando parlo delle connessioni tra Relatività ed economia; è molto triste che non ci sia più un Bergson vs Einstein; è molto triste tutto, ogni singola cosa. Bisogna farci i conti, d’altronde la filosofia è morta e nessuno ha più scritto qualcosa di così sconvolgente. Solo, mi fa incazzare che tutti sappiano che c’è qualcosa di terribilmente marcio in questa realtà che ci troviamo a vivere, ma nessuno si azzardi a contestarla. Manco io la contesto. Non c’ho voglia. Manca la voglia perché la voglia l’hanno sottratta subdolamente nel momento in cui hanno addormentato le masse, finite imbambolate dinanzi a promesse di promozioni e prospettive di esistenze felici in villette con giardino adatte alla vita di coppia con figli e cane annessi. È un’ovvietà, quasi mi rido in faccia nel saperlo e nel dirlo, ma negarlo sarebbe più ovvio. Cosa c’è di più ovvio e facile e furbo di negare che abbiamo sbagliato tutto? Siamo usciti dal tempo e dalla storia, e né il tempo né la storia ci appartengono più. Il passaggio di proprietà l’abbiamo fatto, i numeri sono i nuovi proprietari. La borsa sale, la borsa scende, poi risale e poi riscende… Ma che davvero? Veramente controlliamo la borsa e ci disperiamo alla perdita di un quarto di PIL? Boh. Secondo me Einstein non ne sarebbe felicissimo, men che meno Bergson. Forse Nietzsche sarebbe stato più sereno, tanto l’ospite inquietante lui lo aveva guardato dritto negli occhi già a suo tempo. Però oh, un po’ di nostalgia ce l’ho. Non di qui tempi, che non ho vissuto e che non vorrei vivere assolutamente, ma del bollore intellettuale che c’era, di queste divertenti e stimolanti battaglie tra scienza e filosofia. Invece no. Ecco il mortorio. Andiamo su Marte con Elon Musk, urrà (*segue immagine di quello che sventola la bandierina con faccia annoiatissima*). ‘Mazza che palle. Cioè, figo andare su Marte, ci darà la possibilità di imparare un sacco di cose. Però non so, manca un po’ di pepe, manca qualcuno che con stile ed eleganza, magari davanti ad un piccolo gruppo di ascoltatori in libreria, si metta a fare una disamina delle implicazioni (rigorosamente filosofiche) della suddetta spedizione. Mi sembra tutto troppo monotono, tutto troppo freddo, tutto troppo piccolo nella sua conclamata grandezza. Forse mancano le parole giuste? Forse mancano i ragionamenti? O magari le figure carismatiche e affascinanti? Tutte e tre le cose penso, e anche di più. Manca una vera sostanza, penso. C’è troppa forma, ed è attraente e ben confezionata, ma poi? Mica per trovare qualcosa di interessante nella quotidianità posso spararmi tre documentari al giorno. No dai, no se puede. Svegliatevi un po’ tutti. Risvegliatevi.

Monia Ben Hamouda, Blair, 2020, fabric, wood, curry powder, curcuma powder, acrylic paint, plaster, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza del Campidoglio, Rome, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Risvegliate ‘sta benedetta metafisica, se serve. Magari non serve, ma nel dubbio perché no? Questi numeri e questi fatti e questi oggetti mi hanno stufato, anzi mi fanno male alla testa. E a sentire il tipo che siede accanto a me in autobus, che è da quando siamo partiti che non fa altro che lamentarsi della vita schifosa che fa con un’amica al telefono (stanno entrambi andando al lavoro, presumo), mi sa che anche lui si è stufato e ha il mal di testa. Con l’amica siamo in tre. Direi che è un buon numero per iniziare a pensare. Ad essere nostalgici di una realtà che non abbiamo mai vissuto e mai vivremo, di un’utopia, di una endless nostalghia.

Michele Gabriele, Sitting on the ground, so I will remember it as a nice atmosphere, 2020, silicone, bandages, fabrics, acrylic color, bronze, epoxy resin, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza del Campidoglio, Rome, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Su Endless Nostalghia – https://www.endlessnostalghia.com/ – vi ritroverete a scrollare attraversando una serie di fotografie scattate nelle location del film Nostalghia di Tarkovskij. Sì, c’è un piccolo dettaglio interessante: nelle fotografie, che si alternano tra il bianco e nero e il colore, troverete le opere di svariati artisti contemporanei di cui non farò il nome per il semplice fatto che non li conosco e non saprei che dire. Ecco, chiariamo questo punto: io non conosco né quegli artisti, né le loro opere, né il loro significato (sempre che ce ne sia uno). Ho visto questa mostra virtuale o come la si voglia chiamare nell’ignoranza più totale, partendo – come suggerito dagli stessi curatori – soltanto dal ricordo del film di Tarkovskij (che, per inciso, neanche mi fa impazzire). Quindi mi sono seduto, ho iniziato a scrollare e… Niente, zero assoluto. Non riuscivo a capire cosa stessi facendo e cosa stessi vedendo, complice anche la mia ignoranza in fatto di arte contemporanea e la mia tendenza – che talvolta assume i tratti di una paranoia – a cercare uno schema dietro ogni cosa. Ma non mi sono abbattuto e ho continuato a scorrere all’infinito, a velocità diverse e con occhio sempre più attento, sempre più vigile.

Michele Gabriele, Sitting on the ground, so I will remember it as a nice atmosphere, 2020, silicone, bandages, fabrics, acrylic color, bronze, epoxy resin, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, Piazza del Campidoglio, Rome, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Niente, di nuovo. E mo che scrivo? Che me invento? Uno sconforto assurdo. Se non che, all’improvviso, arriva una fotografia che qualcosa mi dice. Lo dice a me però, quindi non dirò qual è e cosa mi ha detto, anche perché non si può dire. Sono andato in bambola. Fissavo un’immagine che poi, adesso, presa così a freddo, manco mi dice niente in realtà. Però ecco, in quel momento mi ispirava, mi piaceva. Alla fine è tutto un fatto di piacere o non piacere, piacersi o non piacersi, farsi piacere o non farselo piacere. Questa strana relazione tra me e la fotografia – fotografia, non opera d’arte in sé – è durata forse un minuto, un minuto e mezzo. E dopo quel minuto e mezzo ho deciso di mettermi le cuffiette e spararmi a palla Amico di Renato Zero. C’entrava qualcosa con la fotografia? Non penso. Però mi è venuto di farlo, istintivamente. Presumo, allora, che c’entrasse qualcosa in quell’istante specifico, come se la memoria mi avesse imposto di ascoltarla. Non ho avuto altri momenti simili, anche se ho continuato a scorrere. Ciononostante, oltre il curioso caso di Amico, guardare Endless Nostalghia mi ha suggerito le considerazioni che ho fatto sin dall’inizio dell’articolo. E, non comprendo bene per quale motivo e in che misura, ha rafforzato la mia convinzione del fatto che la metafisica esista ancora e abbia un suo ruolo imprescindibile nel Tutto. Sarà perché quelle fotografie, anzi immagini, hanno un che di atemporale, o magari un che di nichilistico e allo stesso tempo metafisico, ma tant’è. Sarà anche che scorrere ti costringe a scegliere una velocità con il quale vivere quest’esperienza in un periodo, in una cultura, in cui non hai scelta sulla velocità con la quale viaggiare perché la velocità è una ed è quella del tutto e subito, partenza in quinta e duecento all’ora. Sarà per via di quella bidimensionalità e di quella aspazialità alle quali siamo abituati in tutto meno che nel contesto di mostre, esposizioni e quant’altro e che ci fanno dire “ma che è?”. Sarà per colpa della seduta di psicoterapia che ho fatto dopo aver visto questa roba e prima di scrivere l’articolo. Sarà la pandemia. Saranno Bergson, Einstein, Nietzsche e Heidegger. Sarà la voce di Renato Zero. Il punto non cambia: a me questa endless nostalghia è piaciuta. Non per via della sua dimensione artistica globale né tantomeno per quella delle opere, che come ho detto non capisco, bensì perché mi ha suggerito qualcosa e mi ha convinto ad accettare di scriverci su. E prima di arrivarci ho parlato d’altro perché nella mia testa era giusto farlo, vedevo lo schema che andavo cercando mentre scorrevo tra le immagini. Non credo che possa avere un senso per qualcun altro, e se ce l’ha ben venga. In caso contrario, meglio ancora. Accendete il PC e guardatevela da soli, mica serve la recensione per capire se una cosa vi piace o meno, se è corretta o sbagliata. Non penso neanche sia nelle intenzioni di chi ha partorito il progetto imporre una visione di qualcosa che forse non si sposa benissimo con un’intenzionalità rigida, già per il solo fatto di presentarsi così come si presenta. E anche se fosse, io ci ho visto Bergson e i suoi amici. Potreste vederli anche voi. Sicuramente, se vi sforzerete a dare un senso alle cose senza domandarvi perché dobbiate farlo e quale sia l’utilità, capirete (non soltanto quello che c’è sullo schermo) e risolverete il problema gnoseologico. E se siete fortunati, viaggerete nella metafisica nostalgia a bordo della vostra DeLorean fino ad uscire fuori da Matrix. Se non lo sarete, no problem. Tanto, basta un ramo secco trovato al parchetto dove portate il cane ad attivare la memoria. E la metafisica, soprattutto.

Michele Gabriele, Sitting on the ground, so I will remember it as a nice atmosphere, 2020, silicone, bandages, fabrics, acrylic color, bronze, epoxy resin, variable dimensions. Installation view in Endless Nostalghia, via dei Condotti, Rome, IT, 2020.
Courtesy of the artist, 101 Numeri Pari and Treti Galaxie. Photo: Flavio Pescatori

Non dirò cosa sia Endless Nostalghia perché non credo sia qualcosa. Al limite, se proprio bisogna dargli una definizione (che in ogni caso lascia un retrogusto di forzatura romantica), Endless Nostalghia è e basta. Sta lì, un po’ senza tempo, un po’ senza spazio, un po’ senza senso, un po’ seriamente e un po’ burlescamente. Una metafisica canaglia. Voi arrivate, entrate nel sito, scorrete, su, giù, a velocità supersonica o a tartaruga, poi di nuovo su, poi di nuovo giù, “ma cosa sto guardando?”, immagine inquietante, immagine rilassante, immagine surrealista, immagine boh, immagine “mi ricordo di una roba simile” e poi boom, la braciolata fatta a ferragosto con gli amici di dieci anni fa vi torna alla memoria. Così, de botto, senza senso. A quel punto andate in stato di trance mentre sullo schermo c’è una madre che tiene in braccio un neonato che sembra uscito da Bloodborne ma voi neanche ve ne accorgete più perché state pensando alla ragazza coi capelli rossi che avevate conosciuto alla braciolata e che vi ha dato il palo facendovi finire in psicoterapia. Però il neonato uscito da Bloodborne vi continua a guardare. Io fossi in voi ci passerei più tempo insieme, a capire se vuole comunicarvi qualcosa, a fare su e giù. Tanto che impegni avete? Si, dai, la chiudo qui. Che poi potremmo anche aprire una parentesi sul fatto che la tipa della braciolata – aspettate, stanno dicendo qualcosa sulla borsa di Tokyo. Torno dopo neonato inquietante, che devo capire se ci capisco qualcosa di economia.  Magari quando ti rivedrò sarai più rassicurante e l’autobus vibrerà di meno. Vedi perché asfaltare è importante? Impossibile seguire la nostalgia se il percorso è pieno di buche.

William Paolo Guarriello was born in 1998 in Monterotondo (Rome) from Argentine parents and lives in Fonte Nuova.
He graduated in 2017 as an advertising graphic designer studying at the Angelo Frammartino Art School in Monterotondo.
He enrolled in the Academy of Fine Arts in Rome in 2017, where he took the degree in 2021 in  Audiovisual Theories and Techniques with the intention of deepening the artistic and production dynamics of the film industry.
He is currently attending the master’s course in Information, publishing, journalism at the Roma Tre University.
Since the first academic year he started writing spec scripts forshort and feature films and he is currently writing for several
magazines on cinema, art, literature and philosophy.