Lettere

by Pierfrancesco Grieco

A semiotic and emotional reflection on sign and language;  a meta-linguistic exercise written in 2020.
[This text is in Italian]

Pierfrancesco Grieco, light-scrapers from the photographic series Reflections, 2019.

Scriveva la “w” senza una stanghetta.

Non ne ho mai compreso realmente il motivo. Di fatto è una lettera semplice, lineare per certi versi. Non è una di quelle lettere che ti costringono ad alzare le dita dal foglio, quelle lettere complicate, presuntuose; lettere che pesano nell’atto fisico dello scrivere; lettere per le quali fare dei compromessi, dei sacrifici: ricalibrare l’impugnatura della penna, migliorarne la presa per poter completare la seconda parte di quell’unica lettera così straziante e fastidiosa, talvolta prepotente.

Alcune lettere sono così, un po’ come le persone: te ne ricordi più di altre, nonostante non si riesca a distinguerle chiaramente a una prima lettura, poiché comunemente intese come la servitù del pensiero, poetico o banale che esso sia. Sono lettere che vorremmo fossero più facili, ce ne lamentiamo, le disprezziamo, seppur continuando a scriverle, giorno dopo giorno, nello stesso e identico modo. Lettere insignificanti per chi legge, non sono altro che lettere d’autore. Lettere viziate, lettere a cui ci affezioniamo.

<<Non affezionarti troppo>>, mi diceva sempre mia madre, con quel tono un po’ protettivo e un po’ dispregiativo che tanto arrivai a odiare. Lei si riferiva alle persone, in genere si dice anche degli animali: <<mai affezionarsi troppo a un cane>> , e così via. Uno come me si affeziona persino alle lettere; ora come lo spiego a mia madre. Penserà che sono un caso clinico. Difficile darle torto.

Per le sue di lettere avevo ormai sviluppato un legame emotivo irreversibile, come del resto per tutto ciò che la caratterizzava. Anche qui mia madre obietterebbe che in realtà l’affetto è per la persona piuttosto che per le lettere che scrive; osservazione parzialmente vera se solo non si concettualizzasse nel mio cervello con lo stesso e identico tono un po’ protettivo e un po’ dispregiativo di cui parlavo prima, che onestamente non riuscivo proprio a sopportare. Tralasciando ora mia madre per un attimo, credo che la verità stia nel mezzo: ciò che ci attrae di un testo a volte è il significato generale, il suo valore nell’insieme, e da lì lo ripercorriamo parola per parola, rianalizzandolo, riscoprendolo. Altre volte, invece, la bellezza dell’unità dialettica, il profumo che emana leggendola e rileggendola, è la prima forma di innamoramento: quella per la parola singola e distaccata, capace di rendere il senso generale quasi irriconoscibile, indecifrabile, ma di fatto inutile.

Ciò che sentivo per lei, si manifestava in entrambe le forme. Un giorno mi disse: <<Sei l’unico che riesce a guardarmi l’anima>>; una frase potente, che mi colpì il cuore. Realizzai in quel momento il mio privilegio: dinanzi al libro più affascinante e intricato della mia vita non mi accontentai mai del solo guardare. Cercai di leggerlo più e più volte, analizzandone ogni singola parola, come incantato, infinitamente grato. Vi trovai dalle più belle poesie simboliste ai trattati di scienza e di fisica. Fu la lettura più appassionante di tutta la mia vita.

Durante le varie riletture, diventai sempre più maniacale nell’osservare e rianalizzare ogni singolo tratto di quell’animo tanto dolce e gentile, impacciato ed emotivo, fragile e tremendamente potente. Più scendevo in profondità e più me ne invaghivo. Fu così che arrivai alle lettere singole, partendo dal testo integrale: i dettagli più minuti e impercettibili della personalità umana, un condensato esplosivo di tutto ciò che un individuo è e fa davanti ai nostri occhi. Fu così che arrivai alle lettere.

Erano una costante fondamentale del nostro rapporto: lettere scritte nei messaggi, lettere pronunciate in cose dette e impossibili da dimenticare – entrambi eravamo soliti dare molto peso a quello che una persona dice, piuttosto che a quello che una persona fa; era una cosa che ci accomunava – lettere stampate sui libri che le regalavo e sui miei scritti personali che solo lei leggeva. E, infine, lettere d’inchiostro, scritte da lei sui suoi quaderni di studio, con quella calligrafia un po’ ciotta ma ordinata allo stesso tempo. Fu in quei quaderni che il nostro rapporto si consolidava. Fu in quei quaderni che arrivai alle lettere, a La lettera. Una “w” insolita, sgraziata, spezzata, orfana della stanghetta finale.

Mi soffermai più e più volte a riflettere su quella lettera, come feci per ogni angolino che scoprivo del suo animo d’altronde – che guardavo, come mi disse lei. Arrivai a una conclusione personalissima, sicuramente fantasiosa e creativa, probabilmente errata ma a ogni modo valida dal mio punto di osservazione. Ritrovai tanto di lei, in quella “w” incompleta: non mi parve una coincidenza che fosse l’unica lettera dell’alfabeto a essere composta da due lettere, due “v” concatenate, intersecate l’una con l’altra, inseparabili. Rividi, in quel suo troncare la seconda “v” di netto, tutta la sua fragilità, il suo senso di inadeguatezza, il suo mal riposto complesso di inferiorità verso il mondo fuori; come una “v” che si sminuisce a tal punto da perdere una stanghetta. Forse, c’era anche un po’ di rassegnata insoddisfazione in quella lettera: pensai che con quel modo bizzarro di scriverla, lei stesse inconsciamente urlando il suo dissenso verso una vita che fino a quel momento l’aveva fatta sentire fin troppe volte come una singola “v”, una lettera sola nell’intero alfabeto. Forse era per quel motivo che lei troncava la seconda, senza accorgersene: forse era un gesto di ripicca e di rabbia nei confronti di tutte le persone che non avevano mai saputo capirla, e completarla.

Pensai tutte queste cose, ne ipotizzai di altre. Dopodiché smisi di pensarci. Fu un buon esercizio di forma e di pensiero, ma nulla più. Pensai che erano tutte cavolate, uno dei miei soliti voli pindarici costantemente inconcludenti e vacui. Nonostante ciò, mentre scrivo queste righe, rimango convinto di una cosa: quella “w” incompleta, qualsiasi cosa significasse, era lei. E iniziai ad adorarla proprio per questo motivo. Proprio come adoravo lei quando chinava il capo e guardava in basso nei momenti in cui si sentiva fragile.

Perché alla fine, forse, aveva ragione mia madre: le lettere sono solo lettere.

Pierfrancesco Grieco (Trani, 1999) is a student at Accademia di Belle Arti di Roma. He was raised in Barletta (BT, Puglia) and kept on living there until the age of 19, when he moved to Rome to start his art studies. He is currently staying in Barletta due to the outbreak of COVID-19.
During High School years, he studied foreign languages (English, French, Spanish, German) and developed great interest in literature, arts and culture. After having graduated, he chose cinema and art as a career, enrolling in Accademia di Belle Arti di Roma.
As for the future, he plans on moving abroad, to another European capital, in order to put to use his language skills, continue his art studies in a more practical way while hopefully taking his first steps into the labour market.