Doppia cattura
This text was written for Doppia cattura, an exhibition idea about four-handed artworks.
The nature of the text – as the coordinated image – consists of the functional emulation of a scientific work then fading into narrative. The premise provides the concept of what is meant by a four-handed work; the introduction states the operative methodology adopted for the writing, from which it opens to as many short stories as there are artworks in the exhibition.
[This text is in Italian]
Divenire non significa imitare, fare come,
e neanche conformarsi a un modello […]
I tipi di divenire sono fenomeni di doppia cattura,
di evoluzione non parallela.
Gilles Deleuze
§ Premessa
Doppia cattura è un progetto espositivo basato su opere frutto del lavoro congiunto di due artisti – o altrettante realtà artistiche – che di solito operano singolarmente.
Ogni opera del progetto è – per così dire – doppiamente autografa. Si tratta infatti di una modalità lavorativa che va necessariamente distinta da quella delle botteghe o dei praticantati – tra autografia e allografia – laddove la presenza del maestro istituisce un assetto gerarchico e verticale; neanche per converso a un’operazione che trascenda l’autorialità; quanto semmai derivante da un compromesso dell’impianto egoico – artistico e personale – che diventa qui compromissione, esposizione al reciproco contagio e apertura al risultato in quanto doppia gestazione. In ciò consiste il punto di definizione formale dell’idea di processi a quattro mani e delle opere presenti.
Il titolo è mutuato da un concetto e dalla corrispettiva immagine espressi da Gilles Deleuze (1977; 1980), che fornisce spunti metodologici e pragmatici al tema in questione.
Deleuze in diverse occasioni di scrittura partecipata – per l’appunto a quattro mani – esemplifica alla perfezione il moltiplicarsi e il proliferare delle connessioni tra due entità differenti che appartengano a uno stesso tessuto di relazioni. Ciò avviene non tanto mimeticamente – specifica il filosofo – bensì per mezzo di una reciproca possessione, una “doppia cattura”, in cui si registra un’esplosione di contenuti nuovi, un “plusvalore di codice”, un “aumento di valenza”.
L’esempio naturale è il classico motivo del reciproco innestarsi tra l’insetto alato impollinatore e il fiore stesso, la cui spinta evolutiva lo porta a riprodurne le caratteristiche per attirarlo a sé; strategia diffusa in particolar modo tra le orchidee, che instaurano un legame specifico col proprio insetto pronubo, di cui possono arrivare persino a simularne l’odore degli ormoni sessuali.
“La vespa e l’orchidea”, seppur appartengano a due “serie eterogenee”, concorrono a far parte di un unico rizoma — termine chiave del pensatore francese, che lo elegge a vero e proprio metodo realizzativo: “fare rizoma”, “fare la molteplicità”, tessere connessioni protese a “un di fuori” acefalo. Uscire; dal proprio territorio, dalla propria fissità.
Fate la linea e mai il punto!
G. Deleuze
§ Introduzione
I problemi che si pongono a questo punto sono di metodo: (1) le opere a quattro mani si fruiscono allo stesso modo di opere realizzate da un’unica realtà artistica (intendendo con ciò anche collettivi, ensamble, team allargati)?
Lo stesso problema del metodo si verifica in chi si accinge a scriverne: (2) potrà mai essere efficace un’oziosa tiritera che verte su come gli artisti abbiano dialogato insieme e altre consolidate, legittime amenità?
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La mia risposta al primo quesito: il modo migliore per entrare in queste opere è sintonizzarsi alla “cattura” che si è data, immaginarsi le proliferazioni, le esplosioni, i divertimenti; due persone paritetiche esposte, quattro mani, quattro emisferi cerebrali, quadrinomie elettive; lo sprofondarsi nelle unioni possibili, unirsi a questa unione, a questa intenzione benedetta; allentare, se non bandire, la gelosia, sperimentare la non prevaricazione, la possibilità dell’ego ammansito doppiamente creativo, oltre-creativo. trans-personale.
Un tale coinvolgimento, per quanto quasi impossibile da duplicare, andrebbe quantomeno considerato, rappresentato a sé stessi, tenuto ben presente – alla stregua di un esercizio mentale.
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La risposta al secondo problema consiste in una sfida a me stesso.
Il tentativo di narrare le catture – quantomeno rinviare ad esse – catturando me medesimo, immergendomi dunque nella stessa linea di esposizione e possessione, compromettendo gli stili e cercando di indurre la compromissione nello sguardo del visitatore accorto; non mancando di offrire le consuete suggestioni tematiche e puntuali riferimenti al processo di creazione congiunta delle collaborazioni in mostra.
Dare valore a quel “quattro mani” vuol dire metterne in risalto la genealogia, sondarne il proposito nascosto, rievocarne l’incontro vero.
§ 1. Stelle e kiwi
Residenza artistica all’ombra di un albero di kiwi. Un amico e una famiglia ospitanti, cinque giorni di lavoro e reciproche catture di personalità: idioritmie modificate, virtù rimescolate – lo spazientito che contagia l’altro più ligio al lavoro, dal temperamento buddhico. Marco ha iniziato prima, con questa storia dei mosaici; la sua è una specie di archeologia, intendo quella dei ciottoli di vetro spiaggiati e levigati dal mare. Diego invece ha viaggiato sino in Marocco per apprendere la lavorazione delle ceramiche smaltate tipiche.
Partire da ciò che è comune: (1) organicità, dell’argilla – quella dura, di Fez – e del mare che è nel vetro, il fuoco che è nel vetro, la pasta che ribolle, si solidifica e infine, nella sua fase post-umana, si trascina, ri-costellando il paesaggio; (2) frattalità, proliferative nelle tessere di Diego – trapuntate ed esaltate da contenuti poetici – più interiorizzate nel materiale che utilizza Marco.
Su queste cose non bisogna pensarci troppo, non avere tempo in certi casi va considerato un vantaggio: le cose si fanno; al volo possibilmente – lo spazientito tra i due annuirebbe.
La spolverata di cemento e gesso necessaria per fissare le tessere in un blocco unico si è poi stampata nel loro supporto “plasticoso”. Il risultato negativo è diventato come quel figlio non preventivato, ma amato – inutile chiedere se allo stesso modo o ancor di più rispetto al mosaico primogenito.
§ 2. Ieri ho visto la luna
Una sera, anzi già notte. E metà mattinata. Così si spiega lo “ieri”. Insomma, roba da completamente invasati. O da assennatori. Artisti in quanto assennatori (mi è venuta così). E il senno – dice il manuale – è la luna stessa. C’è una finestra a Maranola di Formia che si appropria della luna, che riesce a gravitarla. Per davvero. Carlo, Daniele, lo hanno testimoniato. E sono qui a dimostrarlo, sì perché un poco di luna è rimasta incagliata nel medaglione basculante – che è pure una testa, una mente, un plesso di assennatezza. La luna, quando raggiunge la sua posizione, vedrai che ti colpirà in volto. Ed è la loro verità.
Daniele sprofonda gli orizzonti, ne ruba il principio di smaterializzazione. Carlo secondo me è la reincarnazione di un rinomato cantastorie medievale. Praticamente sono come un essere mitologico a due teste. Il bello è che l’hanno scoperto in appena una manciata di giorni. “Dai, facciamo qualcosa insieme”, “ti immagini se la luna potesse”: sono soltanto le ragazzesche esternazioni della lettura automatica che Carlo e Daniele hanno perfezionato e unisonato.
Nel contesto delle residenze e dei progetti di arte partecipata nel golfo di Gaeta, alle pendici dei monti Aurunci, si è dato un racconto ammantato di tutti i crismi del “c’era una volta”. Irripetibile.
§ 3. Dafne
Pronipote Sara, Bisnonno Domenico – Ponzi, noto scultore – uno stesso atelier/studio. Sara lavora alle sue creazioni presso una fonte per lei inesauribile di trasmissione – e mai di commisurazione. Lo avvertono tutti, visitatori, amici. Giovanni l’ha notato più di altri. Questa donna con lo sguardo curiosamente innalzato – tra le sculture di Domenico – in una posa che non è semplice da ritrarre, abbastanza inconsueta poiché non naturale, diventa per Giovanni l’immagine stessa del futuro. Partita così la prima stratificazione: l’opera del bisnonno scultore di Sara, nello studio di Sara – che era atelier del bisnonno – diventa parte integrante del progetto di Giovanni, concomitante all’open-studio di Sara. Giovanni realizza estemporaneamente diversi ritratti fotografici dei visitatori, amici, tutti con tale posa, tutti “che guardano verso il futuro”.
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Credo che Sara grazie a Giovanni si sia sentita libera di intervenire sull’opera di suo nonno, di integrare questo aspetto ereditario, di avvicendarsi essa stessa alla pratica artistica del nonno, con il massimo orgoglio e rispetto.
Le trame che Sara sviluppa hanno consegnato all’opera – sua e del nonno – un nome nuovo, un nome che sa di scultura. Di metamorfosi. A questo punto dovrebbe balenarti alla vista interiore come le opere a quattro mani che si intendono qui siano feconde, vitali, assumono una speciale vita propria, come Dafne: dal “guardare al futuro” di Giovanni alla “trasformazione” di Sara, in questo passaggio, come non vederci la vita?
§ 5. Non sono stato io, non sono stato io
Marco abbraccia diversi campi, escogita congegni, è mediale. Marco si fa volere bene. Luca è un uomo di altri tempi, dall’animo vasto, enigmatico e poetico. Un appello alle istituzioni perché gli regalino un angolo – ettari! – di Ottocento.
Insieme si sono catturati eccome, sono usciti dal proprio territorio a tal punto che Marco non era Marco, Luca non era Luca. Allo stesso modo la teologia negativa qualifica la divinità: per negazione. Marco e Luca hanno lanciato il loro sermone da teologi negativi dell’anti-individualismo nella stessa città –Parigi – dove Giordano Bruno cominciava a elaborare la sua nuova cosmologia. L’uomo e l’infinito.
Il loro è piuttosto un inno all’in-automatismo. Uomo e macchina.
La macchina da disegno a modo suo si distingue dalle altre: è una macchina “umana” proprio perché non è pensata per sostituirsi all’uomo. Ma c’è bisogno che te lo spieghi questo marchingegno, sennò non ti diverti: la macchina da disegno ha un unico braccio roteante su un perno centrale, mentre i due sono di spalle, posizionati alle estremità del braccio. Una volta Luca dirige Marco, alle estremità vengono attaccati due pennelli e Marco diventa pittore; un’altra volta Marco segue i lineamenti del volto di un modello e Luca esegue, qui basta un pennello soltanto; un’altra volta ancora, Luca si autoritrae, ma è mediato da Marco: Luca non può vedersi e necessita che Marco lo guidi nel seguire i suoi stessi contorni del viso, che interpreti il suo stesso sdoppiamento.
Nel primo caso la macchina conferisce istantaneamente lo status di pittore a qualsiasi novizio sia invitato a partecipare. Succede però che il dipinto è ricopiato tutto al rovescio: l’angolo in alto a destra di un dipinto riappare specularmente in basso a sinistra nell’altro, perché se la testa del braccio va da una parte, la coda logicamente sbatacchia dalla parte opposta. Eppure – ci tengo a questo punto – ciò è tutt’altro che un inconveniente: qui è la traccia dell’incompiutezza della macchina, del suo esser dipendente, qui si mantiene il confine tra uomo e macchina – e non è poco – qui infine l’aura della riproduzione viene accolta.
Se la macchina è un’estensione dell’uomo, del suo braccio, vorrebbe dire che essa non va considerata soltanto come tale, come una macchina e basta. E se la mettiamo così, stai a vedere che neanche l’uomo ne esce immutato dalla sua innovazione. Non come credi però, nessuna ibridazione.
Ascoltandoli dal video sentirai delle parole d’ordine – Sì, No – cadenzate al limite dell’inumano, impartite non tanto all’altrui persona, ma a uno specifico organo psichico: comunicazione che trapassa i filtri individuali e penetra dove la riflessione giunge superflua. Qui e solo qui la macchina li ha catturati. C’è sempre un automatismo da imparare, anche noi stessi abbiamo una macchina dentro – con scaglie e corna – che viene diretta tra comandi basilari e imprescindibili. Altrimenti lo spirito non potrebbe transitare. Né la macchina potrebbe sostenere – i giochi e la vita.
Sì, No, comandi istintivi – pure un poco bruschi – stimolano la corteccia arcaica, parlano al sostanziale: «Come comunicare un’azione imminente e collettiva? Quale regola ci diamo?» «Facciamo che non siamo noi ad agire, ma l’azione stessa!».
§ 6. La porta “Cristina”
Mi dicono non essersi ispirati a nessuna immagine e rintuzzo così: «Ma non è possibile! e il Bafometto di Eliphas Levi allora? Robin good-fellow?[1] Qualche deità dal vello caprino? Cristianesimo invertito? Alchimia?»
Niente di tutto ciò. Cristina catalisi, Cristina attivatrice di archetipi, Cristina psicagogica. Demone.
Cristina è un transgender tedesco, con un poco di barbetta, che passeggiava. Berlino, la strada, ha consegnato a Franco e Matteo l’occasione d’oro di un transfer inaudito. Una proiezione fatale. Una sublimante liason, giacché operata simultaneamente da entrambi.
Tutto un unico flusso fino a sera. Cristina poteva impersonare la donna-coniglio di Franco. Non se l’è sentita. Doveva darsi in altra maniera, uscire da sé. Franco inaugura il flusso di pittura e coagulazione. Gli astanti partecipano ritualmente. Matteo da parte sua asseconda le correnti del flusso, telepaticamente. Con quale diamine di organo sovrasensibile sia riuscito non lo sappiamo.
Cristina esemplifica un tramite, una mediatrice, una viaggiatrice di sfere – maschili e femminili. È la gemella veridica della donna-coniglio. Non poteva che essere dipinta su porta. Guardiana della soglia di dominazioni e territori laddove il sessuale è elemento simbolico, in quanto si rivela come fondamento di tutte le trasformazioni.
La porta “Cristina” è stata desiderata, perduta, riconquistata, praticamente il curriculum di un’amante; posteggiata incautamente fuori dallo spazio espositivo, c’è chi l’ha adocchiata e chi se l’è rimorchiata. Vai pure a scoprire essere il compleanno del tizio che ha pensato di portarsela a casa.
Qui c’è l’arcano. Qui si è data una congiuntura di flussi significanti. Qui sono stati tutti partecipanti di un unico concatenamento – altro termine caro a Deleuze.