A proposito dei corsi di scrittura creativa
(Un saggio sulla New Narrative)

o

Grande Fatigue
Un Manifesto

by Alda Palermo

Suffering with dignity–or dignity itself,
how oppressive a value is that?
Dodie Bellamy, The Buddhist

Illustration by Eli Rosso (2020)

Lo scorso anno mi sono messa alla ricerca di un gruppo di lettura (creativa). Lo chiamavo così perché immaginavo un gruppo di persone a cui leggere brani di quello che avevo scritto, e lo stesso facevano gli altri a turno, uno a uno, fino a che non si chiudeva il giro. Avevo già sentito parlare di corsi di scrittura creativa ma non mi ero mai chiesta cosa fossero veramente. L’aggettivo creativo ha su di me un effetto respingente. Mi provoca una diffidenza istintiva, immediata, totale. Comunque, aggettivo qualificativo a parte, la mia ricerca non ha portato ad alcun risultato: non esistono corsi di scrittura in italiano a Barcellona, tantomeno gruppi di lettura (creativa). Esiste un gruppo di lettura di testi già editi diretto dalla docente di Filologia italiana dell’Universitat Autònoma, si tengono nella biblioteca del dipartimento di Romanistica e, a dire il vero, mi sarebbe piaciuto partecipare ma il primo incontro, al quale sono stata invitata da un’e-mail con dentro otto parole e un PDF, si teneva durante una di quelle settimane imprescindibili per chi lavora nei settori che possono beneficiare dei fondi del programma Europa Creativa che ha tra gli obiettivi principali quello di «facilitare la circolazione transnazionale delle opere culturali e creative, contribuendo alla mobilità transnazionale degli operatori culturali e creativi», ovvero una di quelle settimane in cui devi farti vedere a tutti i costi altrimenti la gente pensa che sei in casa, rintanato sotto al divano, avvolto in un accappatoio sudicio, stretto alla borsa dell’acqua calda, stretto a una sconfitta ancora più cocente o, peggio ancora, quella gente non pensa proprio nulla perché ormai nessuno si ricorda più chi sei. Quel primo incontro, dunque, si teneva durante una di quelle settimane in cui, se non ti fosse stato già chiaro prima, ti viene ribadito a chiare lettere che le relazioni tra gli operatori culturali e creativi contano più delle opere culturali e creative, per cui, capisci bene, a quell’incontro del gruppo di lettura non mi sono presentata.

Conosco un ragazzo italiano che scrive poesie e le legge in pubblico ma lui le poesie le scrive in inglese. Partecipa a queste serate di lettura che si tengono periodicamente a Barcellona. Si svolgono per lo più nei bar, di sera, davanti a persone venute a leggere le proprie poesie (in inglese) che, mentre aspettano il proprio turno per leggere le proprie poesie (in inglese), ascoltano le poesie (in inglese) degli altri e intanto bevono un bicchiere di birra. Ma le poesie le leggono anche di fronte ai frequentatori abituali e occasionali del bar che sono andati in quel bar perché in quel bar volevano bere un bicchiere di birra e che quelle poesie (in inglese) non volevano ascoltarle. Mi dirai, si tratta di un contesto informale, non professionale. Ti dirò, hai ragione, si tratta di un contesto informale, ma sul professionale o meno non ci metterei la mano sul fuoco. Comunque, questo tipo di incontri avvengono anche in luoghi più istituzionali, più seri, più puliti. Che non odorano di birra versata per terra o di piscio di gabinetto perché la porta del cesso si è aperta e chiusa troppe volte. Avvengono anche di giorno. Avvengono nelle librerie (inglesi). Nelle biblioteche (inglesi). Negli istituti di cultura (inglesi).

Dicono che gli italiani sono un popolo di poeti ma forse questi italiani non abitano a Barcellona (tranne questo ragazzo). O forse i poeti (italiani) credono che la poesia e la birra non vadano d’accordo. Che la poesia e la birra insieme non siano una coppia ben assortita. Che la birra la poesia la umilia. Che la birra la poesia la può corrompere. E forse questi poeti italiani scrivono le loro poesie in casa, su tavoli ordinati, immacolati, illuminati dai raggi del sole, sorseggiando un bicchiere di vino bianco, sorseggiando una tazza di tè verde, sorseggiando una tazza di tè verde bio, sorseggiando il caffè nero e robusto uscito dalla moka italiana. Questi poeti (italiani) compongono e leggono ad alta voce le loro poesie dove la birra e il puzzo non offendono le parole. Anche le librerie (italiane), le biblioteche (italiane) e gli istituti di cultura (italiani) sono refrattari a ospitare i gruppi di lettura (creativa) in italiano. Quelli in inglese, poi, non hanno proprio il diritto di metterci piede. La lettura ad alta voce, in questi luoghi, è riservata a quelle poesie già edite, già pubblicate, a quelle poesie approvate da un curatore o da una casa editrice importante, da una casa editrice emergente ma interessante, a quelle poesie che fanno parte del canone, a quelle poesie che non fanno parte del canone ma che in quel canone dovrebbero rientrarci. E non è un semplice modo di dire, così, tanto per. È un giudizio argomentato, giustificato, autorevole, pubblicato in un articolo o pronunciato ad alta voce perché quell’articolo è nel cassetto e ha intenzione di essere pubblicato ma vuole essere certo che quel giudizio, prima di essere pubblicato, venga riconosciuto come ben argomentato, come giustamente autorevole. Lo sostiene un docente universitario che pubblica con case editrici scientifiche o case editrici importanti ma non emergenti perché le case editrici emergenti sono riservate agli autori emergenti o agli autori storici ma dimenticati, autori ingiustamente ignorati, quelli che, per motivi che possono essere argomentati in modo autorevole, sono stati esclusi dal canone, e non per una questione di demerito loro o della loro opera, ma per una serie di elementi circostanziali, per una serie di elementi che meritano un’approfondita disamina, elementi che andrebbero accuratamente verificati per argomentare l’iniqua esclusione dal canone di quegli autori e delle loro opere e sostenere una loro sacrosanta inclusione nel canone, e ciò viene analizzato all’interno di articoli apparsi in riviste specialistiche che dicono le stesse cose che dicono quei libri pubblicati con case editrici scientifiche o case editrici importanti, argomenti con i quali costruire un corso universitario per il primo anno di specialistica, per il secondo anno di specialistica, forse anche per il terzo anno di triennale ma non per il secondo anno di triennale, perché si tratta di un corso avanzato per chi ha approfondito il canone e affilato gli utensili teorici e critici studiati al primo e al secondo anno di triennale. I corsi universitari, gli articoli delle riviste specialistiche, i volumi delle collane scientifiche, i gruppi di lettura (in italiano) sono dedicati a loro. Giustamente.

Il mio amico Francesco Pacifico mi ha suggerito la serie televisiva Normal People. Francesco ama le serie televisive, anche il basket. Entrambi lo aiutano a scrivere.
Io non amo le serie televisive, tranne alcune che non conosce nessuno, di cui non parlo con nessuno tanto nessuno le ha viste, che non cito da nessuna parte perché nessuno coglierebbe la citazione. Il basket non l’ho mai guardato. Francesco lo guarda. A volte, lo ascolta. Ascolta i podcast di basket, lo aiutano con la sintassi.
Le passeggiate. Le passeggiate mi aiutano a scrivere. Anche la corsa. La corsa mi aiuta a mettere in ordine i pensieri. Forse i pensieri hanno una natura più fisica di quanto pensiamo, forse questi non sono così astratti come pensiamo. Forse i pensieri degli altri sono astratti e solo i miei sono tangibili. Forse il movimento dello stomaco, del fegato, dei reni e della tiroide servono a far muovere i miei pensieri. Forse i miei pensieri sono dadi rossi che stazionano dentro allo stomaco, al fegato, ai reni e alla tiroide e l’unico modo per trovare la combinazione giusta, per metterli nell’ordine che possa dirmi qualcosa d’interessante, è muovere il fegato, i reni e la tiroide che li contengono. Ho detto a Francesco, hai rotto le palle, Francesco. Lo sai che le serie televisive non le guardo. Ho detto a Francesco, ok, darò un’occhiata a questa serie televisiva che mi consigli. Gli ho chiesto se potevo trovare Normal People su Netflix. Netflix ce l’ho ma non lo uso quasi mai, lo tengo lì a prendere polvere come un oggetto inutile, e se qualcuno mi chiede se può usare il mio account gli dò la password e gli dico che ha una grosso debito nei miei confronti. Anzi no, gli dico proprio che non mi deve niente, che non deve neanche ringraziarmi, e riattacco: ecco come spolvero gli oggetti inutili!

Francesco mi ha detto, no, Normal People non lo trovi su Neflix, che lui Normal People lo vede su Stremio. Guardalo. Poi ne riparliamo…
Mi sono scaricata Stremio e mi sono messa a guardare All’inseguimento della pietra verde con Kathleen Turner, Michael Douglas e Danny DeVito. È un film pieno di avventura, di ironia, di colpi di scena. È un film che vuole infrangere i cliché del genere e di genere. Wilder è la mia eroina. Joan Wilder è una scrittrice di romanzi rosa che ha paura di viaggiare ma che alla fine viaggia moltissimo; che non sa fare le valigie ma sa usare il machete; che se la cava benissimo da sola ma, se le va, chiede aiuto urlando a squarciagola. Quando ho finito di vedere All’inseguimento della pietra verde mi sono messa a guardare Getta la mamma dal treno con Danny DeVito, Billy Crystal e Anne Ramsey, la mamma della Banda Fratelli. È un film pieno di avventura, di ironia, di colpi di scena. È un film che racconta le vicende di Larry e Owen, due sconosciuti che si incontrano a un corso di scrittura creativa: La notte era calda. La notte era umida. La notte era… umida.
Owen Lift è il mio eroe. Ha una collezione di monete che non valgono nulla. No, in realtà valgono moltissimo, ma dipende dai punti di vista. Prima vuole uccidere sua mamma, la mamma della Banda Fratelli, poi pubblica un libro che parla di lui, di sua mamma e del suo nuovo amico Larry, l’insegnante del corso di scrittura creativa. Anche Francesco insegna scrittura creativa. Insegnare lo diverte. Francesco, il primo giorno di lezione, la prima cosa che dice ai suoi studenti è che i corsi di scrittura creativa non servono a un cazzo: tutti a ridere. Francesco è un gran burlone ma la prima cosa che dice agli studenti la dice sul serio, solo che nessuno gli crede perché poi comincia a fare battute a raffica, a prendere tutti per il culo, per cui poi, nessuno gli crede. Francesco è un gran burlone ma è anche un ottimo insegnante, e non lo dico così per dire, perché Francesco è amico mio. Francesco ai suoi studenti del corso di scrittura creativa fa leggere i classici perché i classici ormai non li legge più nessuno, perché ormai nessuno legge più nulla tranne quelli che vorrebbero diventare dottorandi che vorrebbero diventare ricercatori che vorrebbero diventare docenti universitari che non leggono i classici perché le loro letture le dedicano a quegli autori ignorati dal canone. Io non pagherei un centesimo per frequentare un corso di scrittura creativa di Francesco, ma non perché non credo che Francesco sia un bravo insegnante. A un corso di Francesco non parteciperei, come si dice, neanche se venissi pagata. Ma il mio non è un modo di dire. Francesco non solo è un bravo insegnante, ma è uno dei migliori insegnanti in circolazione. Francesco, no, non mi devi ringraziare. Ho già riattaccato.

Il mio amico Giordano Tedoldi è un altro che frequenta i corsi di scrittura creativa. Li frequenta e li disprezza. Giordano non solo disprezza i corsi di scrittura creativa ma disprezza l’idea stessa di corso di scrittura creativa; disprezza gli insegnanti dei corsi di scrittura creativa; disprezza i partecipanti dei corsi di scrittura creativa: Giordano si disprezza.
Giordano ha scritto e pubblicato un racconto che parla del disgusto nei confronti dei gruppi di scrittura creativa che ha frequentato. Descrive le tipologie di persone che partecipano ai corsi di scrittura creativa che, nel racconto di Giordano, si riducono a una sola tipologia: borghesi di mezza età che si annoiano a stare in casa perché non sanno cosa fare, che non escono di casa perché non sanno dove andare, che per motivarsi a uscire di casa si iscrivono ai corsi di scrittura creativa e che si chiamano Gabriella. Poi ci sono le eccezioni. Le eccezioni, per definizione, si riducono a una sola tipologia: ragazze giovani, attraenti, con i capelli sporchi, che si chiamano Yona Friedman e che Giordano si vorrebbe scopare ma che alla fine, no, non ci riesce. Le borghesi di mezza età sono i personaggi preferiti di Giordano, compaiono in tutti i suoi libri, compaiono anche nei suoi blog dedicati alla scoperta di nuovi talenti letterari che Giordano si prende cura di introdurre e commentare. Ogni tanto immagino che questi nuovi talenti siano inventati di sana pianta da Giordano. Ogni tanto mi immagino Giordano che si mette lì, seduto al tavolino, e che inventa a tavolino questi racconti e queste autrici che sono tutte, indistintamente, borghesi di mezza età che si chiamano Gabriella. A Giordano piace scherzare. A Giordano piace prendersi gioco della gente: per questo io e Giordano siamo amici. Francesco Giordano non lo può sopportare. Giordano Francesco non lo considera neanche un vero scrittore. Francesco Giordano non lo considera neanche un vero essere umano. Vorrei alzare il telefono e chiamare Giordano per chiedergli se questi nuovi talenti letterari sono sue invenzioni oppure no. Sarebbe proprio da Giordano fare una cosa del genere. Giordano è un genio, e non lo dico così per dire, perché Giordano è amico mio. Il blog di Giordano non è altro che l’espressione della volontà da parte di Giordano d’infrangere la forma romanzo che Giordano disprezza. Ieri ero sul punto di chiamare Giordano per chiederglielo. Stavo per prendere il telefono e cercare il suo nome nella mia rubrica per domandaglielo. A Giordano piace molto il suo nome, per questo io lo ripeto il più possibile. Giordano, ieri ero proprio sul punto di chiamarti. Ti assicuro che stavo per farlo ma prima voglio sapere se questo blog che hai creato è una tua trovata per infrangere la forma romanzo.
Leggi ad alta voce il tuo nome, Giordano, e immagina che sia io a pronunciarlo perché non credo che oggi ti chiamerò.
Ho appena cancellato il tuo numero dalla rubrica, Giordano.
Dai, Giordano, scherzo. Più tardi ti chiamo.

Sono convinta che, nella realtà, i gruppi di scrittura creativa si avvicinino di più a quelli descritti da Giordano che da Getta la mamma dal treno. Mi fido di Giordano. Non ho motivo per non fidarmi di lui. Credo che se mi presentassi a un corso di scrittura creativa dovrei condividere quello che scrivo con borghesi annoiate di mezza età, borghesi annoiate che vorrebbero scopare ma che nessuno vuole più scopare e che quindi vanno a farsi togliere il grasso dal culo e dicono di non voler più scopare perché ora stanno bene con se stesse fino a quando non incontrano i capezzoli dell’impiegata della lavanderia che pagano per farsi scopare «ma non è un rapporto commerciale, so che ne ha bisogno e lo faccio volentieri». Fantasie da due soldi buone per far arrossire altre borghesi annoiate che non escono di casa perché non sanno dove andare e che leggono il blog di Giordano, il loro ex compagno del corso di scrittura creativa, e che ora vanno in lavanderia indossando magliette attillate e un sorriso compiaciuto. Sono donne «mezze astemie» che abitano in centro e sognano di uscire di casa per farsi un «selfie con lo sguardo febbrile e strafatto» e poi andarsi a ubriacare al Pigneto indossando scarpe col tacco: sono questi i sogni temerari delle donne che si iscrivono ai corsi di scrittura creativa.

Giordano io temo che tu abbia ragione. Temo che siano loro le persone con le quali mi troverei a condividere quello che scrivo. Se i corsi di scrittura creativa fossero come quelli descritti in Getta la mamma dal treno, sarei pronta a riempire il modulo d’iscrizione. Sarei la prima a versare la quota partecipativa. Vorrei leggere ad alta voce quello che scrivo e condividerlo con gli altri partecipanti: con Owen, con il signor Pinsky, anche con la signora Hezeltine. Vorrei poter osservare la realizzazione del volume del signor Pinsky intitolato 100 Girls I’d Like to Pork. Capitolo 1: Kathleen Turner; Capitolo 2: Cybill Shepherd, Capitolo 3: Kim Basinger, Capitolo 4: La ragazza nella pubblicità dei Tacos… Vorrei poter leggere e commentare il racconto giallo di Owen che descrive un omicidio e in cui i personaggi che compaiono sono solo due. Questo è il tipo di racconto che vorrei leggere e commentare. Queste le fantasie che mi esalterebbe discutere.

Poi esistono le leggende. Le leggende sono quei racconti che narrano di fatti mai esistiti o di fatti di cui dubitiamo l’esistenza, perché il racconto di quell’esistenza è intessuto in termini perfettamente felici o perfettamente tragici. La realtà, la nostra, è sempre imperfetta. Farsesca, se va male. Patetica, nella migliore delle ipotesi.

Una delle leggende che riguarda i corsi di scrittura creativa si chiama Small Press Traffic. Small Press Traffic è il luogo che ha prodotto e accolto il corso di scrittura creativa ideale. Talmente ideale che dubito che le cose siano andate così come ci vengono tramandate da Dodie Bellamy e Kevin Killiam ma, per favore, tienitelo per te perché Dodie e Kevin sono amici miei. Dodie e Kevin sono stati miei amici. Dodie e Kevin sono stati migliori amici. Dodie e Kevin sono stati una coppia. Dico stati perché Kevin è morto lo scorso anno: tumore.

Dodie, invece, oltre a essere mia amica, è anche la mia maestra. Non che io abbia, in alcuna occasione, espresso la volontà di considerarla tale: l’ultima persona a cui mi sono rivolta in questi termini si chiamava Mariella e frequentavo la quinta elementare. Ma Dodie, una sera, in un bar in Carrer Ferrnan, dopo la presentazione dell’antologia curata con Kevin, Writers who Love Too Much: New Narrative Writing 1977-1997, presentazione fatta alla leggendaria libreria Sant Jordi – quella fondata da Josep Morales, per intenderci – è uscita dal bagno, ha afferrato il bicchiere di mescal che tenevo in mano, ha puntato il dito indice nella mia direzione, e guardandomi dritta negli occhi, con uno sguardo da invasata che mi ha dato la pelle d’oca, mi ha detto, se d’ora in avanti non ti rivolgi a me chiamandomi maestra, giuro che ti sfregio quella faccia senza rughe che porti su quel cazzo di vestito a fiori. Si è scolata il mio mescal ed è uscita dal bar. Credo volesse sedurmi ma non ne sono sicura. So solo che Kevin, a quanto pare, era gay. Lo ha scritto Dodie in un articolo apparso su «Frieze» lo scorso aprile. Dodie, invece, è bisessuale. Lo ha scritto Dodie in quello stesso articolo intitolato Finding Solace in the Unreal World of Jeffree Star.

Quando Roland Barthes parla della confezione di pasta Panzani, uno si va a guardare l’immagine della confezione di pasta Panzani per capire di cosa sta parlando Roland Barthes. Quando la mia amica Dodie Bellamy parla di Jeffree Star, uno si va a guardare il canale YouTube di Jeffree Star per capire di cosa sta parlando la mia amica Dodie Bellamy. Prima che Kevin scomparisse, guardare i trecentosettantasei video di Jeffree Star avrebbe implicato una disciplina ferrea, ora, scrive Dodie, le viene spontaneo. So che vorresti chiedermi se anche a me è venuto spontaneo guardare i trecentosettantasei video di Jeffree Star per sapere di cosa stavi parlando, ma preferisco non risponderti, Dodie: anche io ho i miei segreti. Comunque sì, li ho guardati tutti i trecentosettantasei video di Jeffree Star: ora so di cosa stavi parlando. NO, non ho pianto quando Jeffree ha dato la notizia che lui e Nathan si erano lasciati però, SÌ, anch’io mi sono commossa quando Jeffree ha annunciato la morte di Diamond. Anche quando, nel tuo articolo, ho letto il tuo nome al posto di quello di Daddy, il cagnolino di Jeffree deceduto dopo Diamond a ottobre dello stesso anno. Alcuni messaggi devono restare opachi o diventare trasparenti solo per chi è davvero interessato a coglierne il significato: ho colto il sottinteso, Dodie. Comunque, dopo aver finito di vedere i video di Jeffree Star, e dopo aver riletto il tuo articolo almeno un paio di volte, mi sono sorpresa ad accorgermi di conoscere davvero poco il lavoro del mio amico Kevin Killiam e, dopo una breve ricerca, ho scoperto che una delle sue opere più importanti è consultabile online. Sono andata sulla pagina di Amazon e ho digitato il suo nome. È così che ho scoperto che esiste un Hall of Fame per chi scrive le recensioni dei prodotti in vendita su Amazon. Non so se dipende dal numero, o dal fatto che praticamente tutte hanno cinque stelle, ma Kevin, grazie alle sue duemilaseicentotrentotto recensioni, è nel Pantheon di Amazon.
Kevin era davvero una persona gentile, non mi stupisce che abbia messo cinque stelle a quasi tutti i prodotti che ha recensito. Ricordo ancora quando, nella libreria Sant Jordi, una mano sulla tua spalla, si è rivolto al pubblico affermando che tutti gli autori presenti nell’antologia Writers who Love Too Much erano morti o invecchiati. Tutti tranne una: tu, Dodie. Ricordo anche il tuo viso, il viso di chi aveva la mano di Kevin poggiata sulla spalla, che non ha ceduto neanche un istante alla seduzione di quel complimento e ha continuato a guardare con sguardo invasato lo studente al secondo anno di Anglistica che, invece di ascoltare le parole di Kevin, giocava con il telefono tra le mani.
Comunque, visto che me lo chiedi, se fossi costretta a scegliere solo una delle duemilaseicentotrentotto recensioni di Kevin che ho letto da portare sull’isola deserta, credo che opterei per quella di Frozen intitolata Do you want to build a lesbian masterpiece? Giordano, osserva e impara: ecco come si disintegra la forma romanzo. No, Dodie, non mi sono distratta. Non stavo giocando con il telefono. Stavo inviando un messaggio al mio amico Giordano per dirgli che è uno sfigato e che se vuole riscattarsi deve chiamarti maestra. Dodie, mi chiedo solo se anche Robert Glück si facesse chiamare maestro quando frequentavi il suo corso di scrittura creativa alla Small Press Traffic. Quel corso settimanale, gratuito, che durava fino a notte inoltrata, che ha ospitato tra le menti più brillanti presenti a San Francisco tra gli anni Settanta e Novanta. Avrei voluto vederti, tu e la tua amica Kathy Acker che vi prestate matita e temperino, tu che la ringrazi accennando un sorriso e poi torni a osservare con sguardo invasato tutti gli altri partecipanti al corso. Tutti tranne Kathy. E Kevin, ovviamente. O forse quello sguardo invasato è arrivato dopo, quando Small Press Traffic ha chiuso, quando il solo modo per far rivivere il sogno era realizzare un’antologia che raccogliesse il cherrypicking di quell’esperienza: la selezione dei frutti migliori prodotti dalle menti brillanti che avevano partecipato al corso di scrittura creativa della leggendaria libreria Small Press Traffic, il sabato sera, dal pomeriggio fino a notte inoltrata. Gli amici. I tuoi amici, Dodie. Quelli con i quali scambiarsi i pettegolezzi: parole ingenuamente considerate frivole dalle persone ordinarie. Preziosissimi frammenti di discorso che tu pazientemente raccoglievi, con disciplina e meticolosità accademiche, e con i quali componevi opere d’arte. I pettegolezzi scambiati con Kevin, Kathy e poi con Bruce Boone, Sam D’Allesandro, Edith Jenkins, Camille Roy, Roberto Bedoya, Chris Kraus…

Mi chiedo se Dodie sia gelosa di Chris. Chris Kraus ha scritto la biografia di Kathy Acker, Chris Kraus ha anche curato l’edizione di prose di David Rattray, Chris Kraus ha scritto la prefazione alla traduzione tedesca di Airless Space di Shulamith Firestone, Chris Kraus ha anche scritto la quarta di copertina a Modern Love di Constance De Jong… Chris, quando lo trovi il tempo per scrivere un nuovo romanzo? No, Chris, non volevo dire romanzo. Lo so che hai inventato un nuovo genere. I love you, Chris. I love tutto quello che fai.
Chris, volevo chiederti se tu e Dodie siete ancora amiche o se avete litigato. Sì, lo so che citi Feminine Hijinx nel tuo libro. Lo so perché l’ho letto and I loved it. Sì, chiaro: anche Feminine Hijinx. Ho letto pure quello and I loved that too. Dodie è la mia maestra, Chris. Ho studiato son œuvre complete, la sua opera omnia: non si scherza con quel dito indice puntato contro. Allora, Chris, avete litigato o no? Complicity is like a girl’s name, ma erano gli anni Novanta. Cos’è successo dopo? Perché non è stata Dodie a scrivere la biografia di Kathy Acker? Chris, ti andrebbe di scrivere la postfazione al mio libro? No, non è un romanzo.
Chris…?
I love you so much…

No, Dodie. Non stavo flirtando con Chris, stavo inviando un messaggio a Giordano. Lo so che tu avresti scritto una biografia più intensa per la tua amica Kathy Acker: Dodie, non ci pensare. Ma tu e Chris avete litigato, per caso? No, ti dico: non stavo flirtando con Chris, stavo inviando a Giordano gli orari del tuo corso di scrittura creativa. Dodie, se vuoi la scrivo io la postfazione alla tue lettere di Mina Harker, The Letters of Mina Harker… Sì, lo so che non è stato ancora tradotto in italiano, lo so che qualcuno dovrebbe farlo… hai ragione, qualcuno dovrebbe proprio farlo… No, non mi sembra una buona idea. Te lo dico da amica più che da allieva: non mi sembra una buona idea: Giordano crede che tradurre sia «un’attività che si collochi immediatamente dopo quella di facchino di pianoforti». Ecco cosa pensa Giordano. No, Dodie, neanche questa mi sembra una buona idea: Francesco quando traduce pensa di giocare alla Settimana Enigmistica. Proprio così, «fare le parole crociate». Dodie, se ti fa piacere, le traduco io le tue lettere di Mina Harker. I am no intellectual, ma se se vuoi posso tradurle io le tue lettere di Mina Harker, Mina Acker…
No, Dodie, non stavo flirtando con Chris.

La mattina dopo aver trascorso la notte a consumare i video di Jeffree Star, ho vomitato. Mi sono svegliata con quella nausea specifica che mi assale quando la domenica vado al centro commerciale. O quando, dal lunedì al sabato, mi sottopongo alla lettura delle critiche rivolte al centro commerciale. Il numero delle opinioni che supera quello dei prodotti. Mi sono svegliata e ho vomitato dadi rossi: prima tre – poi cinque – due – otto – sette – altri due – … ho vomitato così tanti dadi che mi sono riaddormentata, esausta. Al mio risveglio, ho inalato il puzzo maleodorante di decine di dadi rossi sparsi sul letto, sul pavimento. Mi sono alzata con fatica e ho provato a pensare. Sono andata in bagno. Poi in cucina. In sala da pranzo. In bagno. In cucina. In sala da pranzo. Poi di nuovo in quella stanza dove sul letto, accanto al letto, giacevano in ordine sparso dadi rossi e maleodoranti. Ho pensato che, forse, la soluzione più semplice era fare un fagotto e buttarlo via. Ho pensato che forse potevo ammucchiare quei dadi nelle lenzuola e buttare via tutto: lenzuola incluse, materasso incluso. Poi però mi sono trovata a pensare che sarei dovuta andare al centro commerciale per acquistare un materasso nuovo, lenzuola nuove, dadi nuovi. Ho pensato alla fatica che mi sarebbe costato buttare via tutto, guidare fino al centro commerciale, spingere il carrello attraverso il centro commerciale, comprare il materasso, comprare le lenzuola, comprare i dadi, spingere il carrello fino al parcheggio del centro commerciale, guidare la macchina fino alla casa con la stanza dove prima, sul letto, e accanto al letto, giacevano in ordine sparso dadi rossi e maleodoranti. Ho chiamato un amico. Un amico che sta rintanato tutto l’anno sotto al divano, mentre il padre sta seduto tutto il giorno al tavolino a mangiare cibo in scatola. Patate in scatola, per l’esattezza. Un amico che non si chiama Francesco, che non si chiama Giordano, che non ha un nome proprio, che non ha una macchina, non ha nemmeno la patente. Anzi no, la patente, mi ha detto al telefono, ce l’ha ma gli è scaduta, gliel’hanno rubata i vicini di casa, gliel’hanno mangiata i ratti che passano dal suo appartamento per andare al centro commerciale dove il padre va a comprare le patate in scatola. Allora ho fatto un fagotto con le lenzuola e i dadi dentro. Ho parcheggiato la macchina, ho preso il mio fagotto e l’ho trascinato al numero 369 di Carrer de la Diputació. Ho trascinato con incuria quel fagotto, che ha raccolto gli escrementi umani e animali abbandonati sul marciapiede, tanto quel fagotto lo avrei dovuto lavare comunque. Sono entrata con il mio fagotto nella laundrette di Carrer de la Diputació 369. Una laundrette con il nome proprio: Speed Queen. Sono entrata da Speed Queen con il mio fagotto e mi sono guardata intorno, gli occhi feriti dalla luce della laundrette, occhi già feriti dalla luce dei tre tunnel che avevo attraversato per andare in macchina da Carrer de Sarmiento a Carrer de la Diputació: li ho contati perché la luce dei tunnel ferisce gli occhi quando li attraversi in macchina di sera e la sera prima l’hai trascorsa a guardare i video di Jeffree Star. Da Speed Queen tutte le lavatrici, quelle da sei chili (A, B, C), quelle da undici chili (D, E, F) e quelle da diciotto chili (G, H, I), hanno un nome proprio ed erano occupate. Ho chiesto a un signore che stava in piedi davanti a E se ci fosse una lavatrice libera, perché non si sa mai. Lui ha fatto il giro di Speed Queen con sguardo paterno e mi ha detto no. Mi ha detto torna alle otto, alle otto vado via.

Alle otto ho infilato il coprimaterasso dentro C, le lenzuola e i dadi dentro B. Poi è entrato un ragazzo in infradito e ha infilato una pila di vestiti dentro A. I vestiti erano troppi, o troppo ingombranti, per cui A, la lavatrice da sei chili, quella più economica, si è rotta e lì è iniziata una conversazione senza fine tra me, il ragazzo e una coppia di donne che erano venute apposta da La Teixonera per lavare tre coperte e una pila di vestiti dentro G, H e I. Anche G, H, e I si sono rotte. Le lavatrici giravano a vuoto perché non c’era l’acqua nel cestello per cui le donne hanno aperto gli oblò per togliere la biancheria. Poi l’acqua è arrivata all’improvviso e si è riversata sul pavimento. Le lavatrici ormai erano aperte e adesso l’acqua era sul pavimento e i panni erano fradici e non c’era modo di strizzarli meccanicamente perché non era più possibile chiudere gli oblò e attivare il programma di centrifuga. Le due donne i panni li hanno strizzati a mano e li hanno infilati sporchi dentro le asciugatrici R e S: una scena patetica. Una scena di quelle a cui quelli che pagano il signore che va da Speed Queen e che occupa tutte le lavatrici fino alle otto di sera non devono assistere perché quelli che pagano il signore pagano il signore per non andare da Speed Queen e non dover assistere a una scena patetica come quella. Sono gli stessi che la sera prima avevano programmato di ubriacarsi indossando scarpe col tacco e che probabilmente non si sono mai risvegliati nel proprio vomito; che hanno stabilito di innamorarsi della persona giusta o di non innamorarsi affatto perché sanno quello che vogliono e quello che si meritano; che avevano calcolato che Kevin si sarebbe ammalato per cui Kevin non hanno voluto conoscerlo. E invece queste cose qui non puoi programmarle ma succedono e basta, perché quando vivi ti succedono un sacco di cose, anche queste.

E magari queste cose le scrivi e non le dici perché di queste cose provi vergogna o le scrivi perché la reazione che gli altri potrebbero avere ti ferisce più di quanto quella cosa lì faccia già di per sé. Che è più semplice non dirle certe cose o dirle a cose fatte che farlo mentre queste accadono. Che è più semplice dire Kevin è morto che dire Kevin è malato di tumore. Che, in certe situazioni, la sola cosa da fare è immaginarsi un dialogo che non avrà mai luogo perché è più probabile che di fronte a te ci sia qualcuno che, nella migliore delle ipotesi, si sbraccia per aiutarti perché pensa di essere immune dalla tua situazione o pensa di immunizzarsi offrendoti il suo aiuto. E questa cosa, se possibile, ti fa sentire ancora peggio, perché la pietà non è una mano tesa, ma una mano che affossa. È più probabile che di fronte a te ci sia qualcuno così o qualcuno distratto o che non vuole starti a sentire, che qualcuno disposto a guardarti negli occhi e ascoltarti senza dire niente. E poi la sera, quando torni a casa, devi scrivere quello che non sei riuscito a dire lì, mentre stavi facendo l’autodettatura, perché hai bisogno che quelle parole escano fuori per sgomitolarsi, per ordinarsi in una sequenza, per andare da un punto A, a un punto B, a un punto C, e così via. Perché se non le scrivi non capisci più nulla, perché se non le dici è la fine. Perché le persone, quelle che ti dicono che vorrebbero starti ad ascoltare, e che vogliono immunizzarsi, non sono quelle che vorresti ti stessero ad ascoltare. Che la sola persona che vorresti ti ascoltasse è quella che non ti ascolta. Ecco perché hai qualcosa da dire. Hai qualcosa da dire perché quella cosa che volevi dire, e che poi scrivi, volevi dirla ma non hai potuto. Volevi dirla ma non c’è stato verso. Volevi dirla ma il tuo corpo sapeva già che la risposta, anche se la cosa che volevi dire non era una domanda, ti avrebbe annientato. Allora quella cosa lì te la sei tenuta per te. Sei rimasto in silenzio. Ma la cosa che volevi dire, quando non l’hai detta, non è che ha preso e se n’è andata. Non è che è sparita. Quella cosa è rimasta lì, silenziosa, quatta quatta, fino a quando tu, quella cosa lì, hai proprio dovuto dirla. Altrimenti rischi che esplodi. Rischi che succede un macello. Succede un patatrac. Perché forse tu, cioè io, al contrario degli altri che non hanno i pensieri a forma di dadi rossi, non sei in grado di esprimerti a parole e ti è più semplice scrivere. No, scrivere non è semplice: è difficilissimo, almeno per me. Scrivere mi costa una fatica estrema, spropositata. Che quando interrompo la scrittura, ho il corpo spossato: svuotato ma pesante. Che se mi capita di iniziare a scrivere, poi credo di non riuscire. Che ogni volta penso, questa volta non ce la faccio. Penso, ho bisogno di un gruppo di lettura per leggere le mie cose ad alta voce e commentarle con gli altri perché, a un certo punto, non so più se quello che sto scrivendo ha un senso oppure no. Se ha un senso solo per me o ha un senso in generale, non dico in assoluto o un senso universale, ma abbia un senso per un’altra persona che non sia io. Diciamo per il ragazzo in infradito che entra da Speed Queen. Che quando sono costretta a prendere la parola, o la prendo di mia iniziativa perché ho la rabbia che mi assale, ho difficoltà a organizzare i pensieri in anticipo e quei pensieri, allora, quando escono, assomigliano a dadi rossi mescolati in un bicchiere di plastica e lanciati in aria a caso. E le parole che vorrebbero descrivere quei pensieri, quando le sputo fuori, non si capisce nulla, e sembro deficiente, e balbetto… E quando ero bambina già balbettavo e mia nonna andò dal pediatra per chiedergli un parere e il pediatra le disse che ero troppo intelligente, che avevo troppi pensieri, che i miei pensieri si avvicendavano troppo velocemente tra di loro e che, allora, i pensieri, quando provavano a trasformarsi in parole, inciampavano l’uno sull’altro e quindi io balbettavo. E non ho mai saputo se mia nonna fosse andata per davvero dal pediatra o se fosse stata lei a inventarsi questa storia per non farmi più balbettare o per farmi balbettare senza provarne vergogna. Perché, a un certo punto, ho smesso di balbettare ma ogni tanto ancora lo faccio, quando sono troppo stanca o troppo arrabbiata, e ora, quando balbetto, non provo più vergogna. No, in realtà la provo ancora. Divento rossa in viso e smetto di parlare ma poi vado a casa, piena di vergogna, e, per rimediare, provo a mettere in fila i pensieri che prima erano usciti come dadi rossi lanciati in aria a caso. Li sgomitolo in parole scritte e la vergogna si attenua. Ma scrivere non mi è semplice, anzi. Mi è difficilissimo. Ma con la scrittura ho a disposizione tutto il tempo che voglio. Non c’è nessuno che sta lì a mettermi fretta. Non c’è nessuno che guarda l’orologio per farmi capire che il tempo sta per scadere. Non c’è nessuno che sta lì a guardarmi mentre pensa questa qui ha i pensieri inceppati perché ha le parole inceppate. Quando scrivo, so che potrò tornare su quello che ho scritto quante volte mi pare. Che potrò modificarlo quante volte mi piace. Che poi ho anche capito che quando mi immergo nel pensiero costante della scrittura sono costretta a uscire da quello costante per te. Che, anche se quello che scrivo parla di te, parla a te (ovvero sempre), è diverso dal pensare a te e basta. Che anche se ti scrivo (ovvero sempre) o scrivo di te, mi sembra che la scrittura mi porti da qualche altra parte, un luogo che è, paradossalmente, distante da te. Scrivere mi costa una fatica estrema, talmente spropositata che mentre scrivo, e sento che proprio non ce la faccio più, perché mi sento spossata e non ho più le energie per continuare, è proprio il momento in cui non smetto perché penso, se ora continuo, e non mollo la presa, forse, poi, potrò finalmente riposarmi. Ma quando smetto di scrivere, ovvero di scriverti, comincio a pensarti e quel pensarti mi stanca ancora più che scriverti.

Lo scorso anno mi sono messa alla ricerca di un gruppo di lettura (creativa). Poi ho capito che i gruppi di lettura (creativa) non esistono ma esistono i corsi di scrittura creativa. Nella mia immaginazione, i corsi di scrittura creativa sono come quello di Getta la mamma dal treno. Ho immaginato di essere in quella classe insieme a Owen, al signor Pinsky e alla signora Hezeltine… È così che ho scoperto il canale YouTube di Duncan Birmingham. Duncan Birmingham è il mio eroe. Non solo condivide con te la sua collezione di libri, in ciascuno dei suoi tutorial e in due episodi dedicati, ma ti insegna, con pazienza e precisione, come procedere nella realizzazione di un libro pop-up. Un libro pop-up come quello in cui Owen racconta la storia di lui, di sua mamma, e del suo nuovo amico Larry, l’insegnante del corso di scrittura creativa. Un libro che puoi iniziare e terminare, ricominciare e ricominciare; un libro dove ogni parola conta perché lo spazio a disposizione è limitato; un libro che sei costretto a toccare e a manipolare.

Questo è il libro pop-up che grazie a Duncan Birmingham ho in progetto di realizzare: una pagina con noi che facciamo l’amore sopra una macchina argentata, e sopra di noi le stelle cadenti e gli aerei che decollano da Fiumicino; una pagina con noi che facciamo l’amore sulla spiaggia di Fregene, tra i granchi che sgambettano e le fette di cocomero che appaiono e scompaiono dal bancone del chioschetto in legno; una pagina con noi che facciamo l’amore nel giardino dell’Istituto Catalano al Gianicolo, tra i pappagallini che muovono le ali e le civette che allungano il collo; una pagina con noi che facciamo l’amore appoggiati a un nasone dove quattro tartarughe si fanno il bagno con la spazzola e il sapone; e una pagina con una terrazza che si trasforma in un veliero gigante, le lenzuola spiegate, io che mi metto lo smalto blu e tu che parli. Ma se tiri la linguetta di carta, tu ti avvicini a me in silenzio, e facciamo l’amore.

Ecco, era questo che avrei voluto dirti l’altro giorno. Il giorno in cui ti ho chiamato e ti ho detto che cercavo qualcuno con cui discutere di quello che avevo scritto e tu mi hai detto che mi sarei dovuta iscrivere a un corso di scrittura (creativa). A un laboratorio di scrittura (creativa), mi hai detto. Credo volessi lusingarmi: laboratorio suona più avanzato di corso. E io volevo risponderti che avevo il terrore dei corsi di scrittura creativa, ma non sono riuscita a dirtelo perché tu, come al solito, o come accade solitamente con me, non avevi molto tempo a disposizione e io, in quello spazio, non sono riuscita a dirti che avrei voluto fossi tu la persona con la quale commentare quello che avevo scritto e invece ti ho detto, mi sembra una buona idea, e hai riattaccato.

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I riferimenti (reali) a Francesco Pacifico sono presi in prestito dalla conversazione con Ema Stokholma realizzata per Piazza dell’Enciclopedia, un’iniziativa della Treccani, trasmessa in streaming il 2 maggio 2020 sul canale digitale dell’istituto e ora consultabile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=Rum1XT-Wet0.
Il racconto di Giordano Tedoldi a cui si fa riferimento, e da cui è stata estrapolata la citazione sul lavoro del traduttore, è Io odio John Updike presente all’interno dell’omonima raccolta di racconti edita da Fazi (Roma 2006), poi da Minimum Fax (Roma 2016).
Il blog di Giordano Tedoldi si chiama Suite Italiana; i brani citati sono Una seduttrice di Cristina Guarducci, pubblicato il 21 Aprile 2020, (https://suiteitalianalt.blogspot.com/2020/04/una-seduttrice.html) e Primo gennaio 2020 di Patrizia Valentini, pubblicato il 5 maggio 2020 (https://suiteitalianalt.blogspot.com/2020/05/primo-gennaio-2020.html).
Il libro di Chris Kraus a cui si fa cenno è I Love Dick, pubblicato per la prima volta da Semiotext(e) (Los Angeles 1997).
Alda Palermo was born in Rome. She lives in Paris where she is a researcher and an independent curator.