Due poliziotti e una madre
A reworking, hopefully populist, of Claudio Caligari’s L’odore della notte (1998). Any reference to real people or events is purely coincidental. A few minutes after the 8 p.m. news on October 9, 2025, Tuscany, in the province of Pistoia.
[Italian]

Se The Sinner Fever è stata un’ottima scusa per far parlare i figli con i propri padri, i poliziotti che sfilano insieme ai manifestanti sono, di per sé, una grandiosa discussione fra me e mia madre. Che fosse un falso storico e che adesso io mi metta a dissimulare il quarto potere è una richiesta a cui non adempirò: ho già chiesto scusa. Poi, che il dibattito politico intergenerazionale faccia venire mal di testa è noto: di recente ho visto al cinema Toni, mio padre, alla presenza della regista Anna Negri, e il riassunto sommario che riesco a trarne è che non c’è pace fra amore e militanza, che la famiglia è la proto-struttura di stampo mafioso, che quando si parla di classe è inutile perdersi in vizi d’amore, che quando si parla d’amore il rapporto di classe ne delinea qualità e distruzione. Tratto questo punto di vista, la conversazione può arenarsi nel niente oppure aggrapparsi su strutture fragili. Esaurirei il tentativo della seconda, dove l’energia che si erge è così lapidaria da farmi alzare dal tavolo, dicendo “tu non capisci niente” alla persona che più di tutte mi ha insegnato cos’è la politica, dove accumulare l’odio, dove disperdere l’amore. Così, gratuitamente, mia mamma.
Laureata in giurisprudenza nel 1988, non ha mai preso l’abilitazione per farne mestiere: il sogno della magistratura si era già arenato o l’imperativo ovunque sabotare il piano era, pur nei limiti, una alternativa convincente. Per redimersi, ha insegnato a me cosa chiedere a tutte le maestre della scuola materna che frequentavo. Tre anni e spesso vestita di rosa, mi disperdo nelle classi con l’intendo di domandare, in un tentativo più che politico e post ideologico, “tu sei per Prodi o per Berlusconi?” (aiposterilarduasentenza). Exit poll sbiaditi, resta la cadenza delle mie domande – temo di non essere mai stata presa sul serio (&altrimaterialiperlaterapia). Ricordi apocrifi esclusi, dalla memoria si strutturano suoni più che fatti, in un ammasso informe e piatto in cui accenti, dialetti e sillabazioni diventano un tutt’uno intraducibile. E poi altra musica: i cori per le manifestazioni per la pace, per la 194, per il clima, per la liberalizzazione delle droghe ove pesanti ove leggere. Mestessa ma piccola, con Linda (classe 1999, un anno più grande di me) – non pronte per nessun corteo e comunque preferivano le Barbie – piuttosto stanche e lo stesso giorno in cui avevamo trovato il suo nuovo gattino in un canile di provincia, obbligato, in cuccetta, a sfilare con noi (lo chiamarono Ghandi, il giorno dopo perse la coda). Me ne compiaccio: mi ricordo che riuscivo a dormire alle feste negli spazi occupati con tutto il punk rock che rimaneva, e contestualmente mi facevo cullare da ninna nanne di dibattiti televisivi su La7, dove la sinistra benpensante – come la chiama lei, e della quale è schifata e succube – elargisce tentativi esasperati di presunzione e propaganda, spero populista a questo punto: che sono diventati i miei peggiori incubi, che sono diventati i suoi migliori amici. I brividi che sento e rielaboro nelle ultime manifestazioni pro Pal sono scintillanti mix di rinnovata coscienza collettiva e ancestrale e transgenerazionale trauma che si moltiplica, libero ed esponenziale, con buona pace dei miei futuri figli. In questa energia che difendo, sento svilupparsi l’alternativa convincente che si esclude sia dall’internazionale fascista di Trump, Meloni e Netanyahu, sia dalla sinistra neoliberista succube e servile a tutti i processi di coercizione deterministica. La guardo e la vedo? Anarco-sindacalista? Suo malgrado, a volte si perde.
Vogliamo tutto e almeno l’autodeterminazione della Palestina e anche la nostra. Oggi è il nove ottobre, mia madre mi guarda ottimista per la possibile approvazione del piano di Pace firmato Trump, fiduciosa nel cessate il fuoco e nella liberazione degli ostaggi. Ne intuisco il posizionamento, mi irrigidisco e alzo i toni, presuntuosa asserisco: dove si è esaurita l’energia si accettano gli accordi per la costruzione di protettorati ottocenteschi – nel frattempo in Cisgiordania si continua con la politica di occupazione coloniale ed eliminazione fisica della popolazione palestinese, è impossibile smettere di parlare di pulizia etnica – qui non si può, qui, nel nostro privilegio, dobbiamo arrabbiarci ed ergersi e boicottare il boicottabile. Vogliamo tutto e almeno l’autodeterminazione della Palestina ed anche la nostra. Non si esaurisce. Se la lotta continua è iniziata, deve ontologicamente continuare: prendo in prestito dal suo vocabolario linguaggi di nuovo in voga, lei non si stupisce più della decontestualizzazione, è decostruita ed emancipata, voleva figli audaci ed eclettici. Questi i prodromi, insisto: l’accordo su Gaza, sul destino di Gaza, non può essere una grande vittoria per Trump – se vince il Nobel per la pace mi impicco (se Sara fosse bipolare lo troveremmo normale, quando parla di marcia bianca e poi dice di volersi ammazzare) e la sinistra non può seminare sorrisi davanti alle violazioni del diritto internazionale. L’approvazione entusiastica degli over 40 è drammatica, se solo mi cadessero le lacrime dagli occhi urlerei meno. Avanti: il diritto all’autodeterminazione non è il diritto a uno stato geografico e territoriale, questa è la nostra (la tua mamma, ho le dita che simulano due pistole puntate) e con sbigottimento scarna, interpretazione occidentale. Autodeterminazione: il diritto a decidere per sé: proprio dei popoli, che sono capaci di agire per proprio conto e che non sono infantilizzabili (non mi guardare con quell’aria commossa che sei il mio nemico). Finisco velocemente e sommariamente: i Palestinesi si devono determinare da soli: politicamente: civilmente: socialmente ed economicamente: come insegna Francesca Albanese e che noi ripetiamo come mantra, il liberismo ha i giorni contati.
È fiera di me, ma ha un ruolo strategico in questa conversazione, anche se non ne ho riportato le tracce. Mi soffermo sul fatto che sono tre volte in meno di ventiquattr’ore che sottolinea che la mia musa, di cui sopra, ha lasciato lo studio di In Onda – altro programma elucubre di La7 – mentre parlavano di Liliana Segre, così, senza salutare. Sogghigno appena ricordo che stava andando a fare un’ospitata a Tintoria, il mio podcast preferito, con quei due comici prestanti che sono Tinti&Rapone. La biasima, ma con il sorriso sulle labbra, mi dice che la biasima anche Saviano – che dolore e che squadra – che entrambi (si sente parte di un gruppo, conosce bene la centralità del consenso, non è sola) la stimano, che però: e mi dispiace non dar voce al contradditorio; quindi, attesto un insieme di però su cui non posso soffermarmi perché, per coerenza e rigore morale, non ho ascoltato. Rispondo: grazie mamma e basta con il decoro. E poi abbiamo fatto yoga in stanze separate. Non voglio le sue energie negative in questi mesi di collettiva intensità promiscua.
E poi lei aggiunge (non so se è il ruolo, il posizionamento o la presenza scenica, ma so quanto L’odore della notte di Caligari si insinua nei nostri modi di fare), docile e stronza, in questa folla di masse vive nelle piazze, anche quei due poliziotti che hanno sfilato con i manifestanti a Milano – che poi era un falso storico e che adesso io mi metta a dissimulare il quarto potere è una richiesta a cui non adempirò – ma in ogni caso le urlo di smettere di ripeterlo. Io mi sento male e viva. Je suis corpo sociale, metonimia della categoria manifestante e contre les flics. Tutti i giorni, da mesi, trattengo il dito medio quando vedo le guardie: così, per scaricare la tensione, lo faccio in faccia a lei. Quando meno se lo aspetta, le ruberò anche la televisione: esproprio proletario, me lo hai insegnato tu.
