Autunno caldo (Hot Autumn)

by Martina Macchia

Written in 2025 after an experience at Pianpicollo Selvatico and before beginning a PhD thesis, this text moves through a deep space, connecting emptiness, margins, artworks, and soil as forms of interspecies life.
[This text is in Italian]

Castello di Rivoli, detail. Photo by Martina Macchia.

Ho cancellato molto, depennato, riscritto, tagliato. Mi hanno insegnato che la scrittura è (anche) un processo in negativo, ma che ciò che si toglie bisogna conservarlo, custodirlo in una scatola e tirarlo fuori quando occorre. Credo che questo dato abbia acuito la mia incapacità di lasciare andare le cose. Ora che mi trovo ad attraversare questa montagna gigante e multiforme, cangiante e dolcissima – ovvero, iniziare a scrivere la mia tesi di dottorato, il mio trouble momentaneo, da abitare e amare – mi sono accorta di una cosa: prima di tutto è necessario disimparare. Scegliere questa strada collaborativa e interspecie può significare, solcando le parole della poetessa e attivista Alexis Pauline Gumbs, sostituire la famiglia biologica e patriarcale con scuole (school of fish) di disapprendimento; ovvero perseguire una modalità alternativa di apprendimento, mediato dallo sguardo sull’altro e dall’apertura di interrogativi sulla cura come formazione reciproca, in opposizione alla struttura scolastica odierna che prepara l’umano alla suddivisione tripartita tra otto ore di lavoro, otto ore di riposo e otto ore di svago. Siamo davvero destinate solamente a questa temporalità?

Ci sono le zanzare tigre e c’è la lotta in piazza, un organismo di volti, profili, bandiere e canti. Ci siamo noi nel mezzo. E persone che non vedevo da ieri o da anni: alcune le saluto, altre no, sono troppo sfumate nella folla. Siamo tutte lontane ma vicinissime. C’è un volto che non riesco a mettere a fuoco e allora mi sposto, mi nascondo: si può riconoscere un addio anche senza dirlo. Si può stare silenziosamente in questo mare di terra palpitante.

Nei bordi, nel limite che separa il pieno dal vuoto e viceversa, sto facendo spazio a ciò che ho letto, ascoltato, visto. Molte cose le ho dimenticate, le rileggo, ma soprattutto le vedo con altri occhi e mi emoziono. La progressiva apertura dei sensi rende questo processo un’esperienza corporea e sensibile, una gestualità che non diventa mai automatica ma richiede uno sforzo costante e naturale. Disimparare è un atto di fede: bisogna scavare in profondità. Prima di tutto con le mani, nel suolo, dove miti e vermi si incontrano, dove le radici respirano con il compost: nello spazio profondo della terra. Questa immagine la conservo come una fotografia inesistente, scattata con l’occhio destro ricurvo, grazie all’utilizzo dalla mia personale prospettiva monoculare, durante il tempo – dilatato, pieno, presente – trascorso nell’ecosistema di Pianpicollo Selvatico, centro di ricerca e casa per molti esseri incredibili di cui è custode l’artista e fisica Alice Benessia. Partecipando a un’esperienza condivisa di piantumazione ho scoperto una nuova funzione delle mie mani. Con le mani posso scavare e andare in profondità, posso stabilire un contatto corporeo con i viventi di cui il suolo si compone e si nutre. È attraverso le mani che riconosco lo stato di salute del suolo e lo preparo ad accogliere nuovi alberi da frutto e piante aromatiche. Alle radici serve acqua e letame: non siamo così diverse. Un’energia sprigionata dal basso mi porta progressivamente verso zone umide e argillose, mi radica a terra costringendomi a convivere con alcune gradazioni di nero, nell’intervallo che anticipa la propensione dell’occhio ad abituarsi al buio. Alla profondità ci si abitua con il tempo, bisogna abitarla. Non avevo mai pensato che, per certi versi, piantare un albero e iniziare a scrivere una tesi potessero essere, in questo senso, pratiche affini. Sono entrambi gesti intimi e politici che conducono verso mondi sotterranei.
L’albero da frutto anticamente si trovava al margine del bosco. In questi giorni ho ripensato molto a questa frase, cercando di allontanarmi dall’abitudine ad antropomorfizzare la natura. Ho imparato che uno dei principi della permacultura riguarda la valorizzazione del margine, e devo ringraziare l’educatrice ambientale e progettista agroecologica Silvia Corna e il contadino itinerante Bruno Dor per questo. Insieme a tutte le mie compagne di viaggio. Nello spazio marginale, tra il prato e il bosco, risiedono forme biodiverse di ricchezza interspecie: piante, insetti, microbi, funghi, spore e molto altro che non conosco ma che partecipa generosamente alla proliferazione della vita. In quella crosta di terra passano molte creature. Il margine è vivo ed è una forma di resilienza a cui bisogna dare spazio, perché questo rende più ricca la vitalità dell’intero sistema, di cui l’umano fa parte in quanto essere bipede che se ne prende cura. Camminare sul margine del bosco è un’esperienza straordinaria, mi ha ricordato uno dei riferimenti teorici della mia ricerca, l’intellettuale afro-americana conosciuta con lo pseudonimo minuscolo di bell hooks, che riconosce il valore culturale e creativo del margine come spazio di resistenza e di apertura radicale in cui creare collettivamente.

Qui qui qui. Grazie acqua che pulisci ciò che resta della notte: le croste sottili, i respiri annientati, gli occhi rigirati dal sale. I mondi umidi e interni, polverosi e ghiacciati, fatti di compost e neve, lasciano spazio al respiro per inventare altre forme di libertà. Ci trovano nudi e soli: sembra essere una benedizione che solo il buio può regalarci. Sospesi nel mondo, il mondo ci solleva.

Molte anime, alterità animali e vite più-che-umane popolano e abitano quel margine, espandendosi nel mondo, riproducendosi, mangiandosi a vicenda e partecipando con la morte alla circolarità della vita. L’istinto di morte è più forte, mi ripeto. Morire è più facile. Alcune di queste creature le ho ritrovate sotto altre forme nel primo museo di arte contemporanea in Italia. È un castello ma somiglia più a una rovina: membra scomposte, echi in lontananza, un tappeto di nebbia – ho scoperto che anche il giorno dell’inaugurazione nel 1984 c’era la nebbia – da cui nascono foglie giallissime che mi guardano. Si articola in tante stanze, ma nel suo manifestarsi al mondo si disfa, si frantuma. È un ambiente multispecie, aperto e incompiuto, un reticolare sopraggiungere di strati differenti, di corporeità e afonie, dove altre e possibili forme sono le protagoniste. L’umano rimane laterale, escluso dalla narrazione dominante. Al suo posto brulicano le alterità che difendono il loro posizionamento, scandiscono lo spazio-tempo e, alcune volte, annegano nell’abbondanza dei margini. Nel pieno che è vuoto, nel vuoto che è pieno.
Un pinguino albino, altro essere bipede, protagonista antartico del video di Pierre Huyghe, è sopravvissuto al calore del fuoco e cammina sui frammenti di una città postindustriale bruciata e devastata dalla crisi climatica, le sue corde vocali toccano le mie nel momento del sussulto: mi punge in petto una natura morta, un cavallo dalle zampe allungate dalla tassidermia. Si chiama Novecento ed è una delle opere più “presenti” della collezione permanente del museo, lasciato al mondo da Maurizio Cattelan nel 1997, lo stesso anno della sua acquisizione e della mia nascita.

Perdere l’orientamento significa anche questo: non avere più le coordinate, sbucciarsi, trovare la giusta posizione per camminare nel rosso pallido, aranciato, poi ancora: accesissimo, quasi accecante, luminoso e candido rosso. La lotta e il fuoco hanno lo stesso colore.

Un salmone vola o nuota nello spazio cromatico profondo generato dall’installazione del duo Cooking Sections, e mi ricorda che il museo e il bosco hanno una cosa in comune: i passi fanno più rumore. Qui si cammina in punta di piedi. Una voce fuori campo descrive le relazioni tra il colore e lo sfruttamento del corpo animale. Il salmone da allevamento è grigio, ma l’assenza di rosso rintraccia un’altra assenza, quella di nutrienti e del salmone stesso, della sua esistenza in quanto individuo. A Pianpicollo, dialogando con altre persone, ho riflettuto su una possibile risignificazione dell’individualismo (che associo sempre alla deriva neoliberista del nostro sistema economico) in relazione al significato reticolare di collettività. L’agroforestazione e le pratiche di cura del suolo possono aprire un nuovo scenario sul significato di questo termine: individualismo è anche dare la giusta importanza a ogni individuo. Ciò che ci accomuna in quanto individui umani è che nessuno mangerebbe mai qualcosa di grigio (o qualcosa di bianco, come ricorda Bruno Munari parlando degli Achromes di Piero Manzoni, in particolare delle sue rosette) e per questo i salmoni vengono nutriti con una sostanza che imita la colorazione delle loro prede, assumendo moltissime gradazioni differenti. Ma c’è di più. Ancora, quella stessa voce fuori campo, racconta che “i corpi sono diventati dispositivi di filtraggio (in cui) i colori mutevoli di carne, squame, pelle o piume ci danno indizi per comprendere le metamorfosi ambientali e metaboliche tutt’intorno e dentro di noi”. Vale a dire, nelle profondità del nostro corpo.
Questa storia del colore è una storia profonda, di riconoscimento e percezione, ma anche di scardinamento e sopraffazione, interna a molti corpi e ai corpi della terra, che metto in relazione al processo iniziale di scrittura e al superamento del vuoto, ai margini del bosco e agli ecosistemi interspecie del suolo, terrestri o marini. Alcune volte questi ultimi coincidono e così ci si può ritrovare su un’altura montuosa ricordando che in un tempo passato quella stessa vetta è esistita nella geografia di un altro spazio, come una creatura profonda dell’abisso.

Martina Macchia (b. 1997) is a curator and Ph.D. candidate at the Academy of Fine Arts in Rome, in partnership with Roma Tre University. Her research investigates the relationship between artistic research and territory, focusing on its interaction with the more-than-human. Since 2024, she has been a member of the Scientific Committee of RAVE East Village Artist Residency and part of GuilmiArtProject. She also contributes to the editorial teams of both academic and independent journals, including “E.T.zine,” “IMPURE. Journal of Art and Anthropology,” and the antispeciesist magazine “Animot. Studi critici sull’animalità” with Gabi Scardi. She has curated projects such as Rosalba. Lo spazio cangiante (GuilmiArtProject, 2024) and Sedimenti by UCCI UCCI (Italian Cultural Institute in Cologne, 2023-ongoing), collaborating with several Italian museums and art institutions.