I Love Dick, o “I love you, Dick”?
Text about I Love Dick, the book published in 1997 by Chris Kraus and the series directed by Sarah Gubbins and Jill Soloway in 2016.
[This text is in Italian]
Cover for the second edition of I Love Dick, designed by Hedi El Kholti and published by Serpent’s Tail in 2016.
The first edition of the book was published in 1997 by Semiotext(e).
Qualcuno ha detto che siamo animali. Sociali, sì, ma pur sempre animali. Non è vero, non completamente almeno. Se fossimo soltanto questo sarebbe pressoché inutile parlare di progresso. Non esisterebbe neanche come concetto, è chiaro. I leoni non dibattono su come divenire più civili verso le gazzelle o su come abbattere la legge del più forte nella scelta della leonessa con la quale accoppiarsi. Difatti la parola “civiltà” presuppone l’esistenza di una collettività formata da cittadini. Gli uomini sono cittadini, non i leoni e le gazzelle, anche se spesso è lecito domandarsi chi di loro sappia stare meglio al mondo. In ogni caso parlare di progresso significa, neanche troppo stranamente, parlare d’amore. E anche di felicità, quella che secondo la Costituzione degli Stati Uniti d’America è un diritto. Di questa verità, così scottante per la sensibilità di qualche animale sociale, si discute anche in un romanzo del 1997 scritto proprio da un’americana doc. Si chiama Chris Kraus, è una regista ed è la protagonista di I Love Dick.
Millenovecentonovantasette: in quest’anno viene legalizzato il divorzio nella Repubblica d’Irlanda, Titanic sbanca al box office e Elton John esegue Candle in the Wind al funerale di Lady Diana. Simboliche stranezze? No. È semplicemente interessante notare come questi eventi si sarebbero potuti ritagliare un posto in qualche capitolo del libro se solo questo fosse stato pubblicato un paio d’anni dopo. Non tanto per un fatto meramente speculativo – citare e strumentalizzare eventi senza poi analizzarli con la giusta onestà intellettuale è una prassi tristemente comune a tutte le forme di comunicazione –, quanto per un fatto di rilevanza umanistica. E I Love Dick ha indubbiamente questa rilevanza. È anche intelligente nel modo di acquisirla e portarla agli occhi del lettore. Lo fa attraverso un formato epistolare tanto dinamico quanto riflessivo, definibile “ultra-diegetico” nel suo essere indissolubilmente legato alle dinamiche di quella storia che lo va a comporre. Lettere, fax, e-mail, appunti e riflessioni si susseguono in un flusso di coscienza di joyciana memoria trascinando tutto e tutti in un vortice caoticamente ordinato, quasi razionale, al cui centro si svolge la battaglia degli opposti: amore e odio, necessità e superfluità, bellezza e bruttezza, forza e debolezza.
Ma I Love Dick racconta veramente una storia? è alquanto relativo, dato che in questo caso le unità Aristoteliche, che pur ci sono, contano veramente poco. Chris sta con Sylvère, poi si infatua di Dick, il resto è un viaggio poco ortodosso tra le incertezze di una donna profondamente disillusa che si sente fuori posto (e quante principesse fuori posto c’erano nel 1997, e quante ce ne sono oggi). Con certezza, questo sì, racconta La Storia. Perché Chris Kraus, in definitiva, scrive di una condizione umana universale. Il suo scritto è uno splendido ritratto femminista e al contempo un’onesta analisi del rapporto uomo-donna, donna-donna e uomo-uomo nell’era moderna. Non c’è demonizzazione, non c’è cattiveria e non c’è demagogia. Però c’è amore. Non si dice che l’amore attrae gli opposti? Ecco, in questo caso si potrebbe dire che l’amore è gli opposti. Anche di più se si afferrano le parole con pugno meno illuminista e più romantico. Fatto sta che appare difficile negare che questo ritratto sia, tra le altre cose, un elogio alla libertà d’essere in tutte le sue più intime sfaccettature, a prescindere da come lo si approcci. L’arte è una di queste. Non certo insignificante, considerata la sua centralità nello sviluppo della vita dei tre protagonisti della vicenda, i quali si posizionano perfettamente agli estremi di una piramide destinata a crollare su se stessa. Lo farà non soltanto a causa dei difetti strutturali che caratterizzano ogni estremo, incompatibili l’uno con l’altro (nonostante la volontà di convincersi del contrario), ma anche e soprattutto perché le fondamenta sono e sono sempre state marce. Con ogni probabilità lo saranno sempre. Anche questo è I Love Dick: il resoconto dei fragili costrutti (ineluttabilmente gerarchici, e questo è un chiodo che Kraus batte a ripetizione) che ci siamo costruiti per tenerci a bada, e che alla fine hanno finito per distanziarci l’uno dall’altro. Sfortunatamente, l’arte non è esente da questa verità. È estremamente difficile parlarne senza scadere in una limitante retorica, ma questo Chris Kraus, da brava persona d’arte, lo sa bene, e infatti non scrive nulla che possa celare la malsana intenzione di imporre una visione univoca del mondo e le sue cose. Mostra e analizza filtrando attraverso una ragionevole emozionalità, ma la sua resta pur sempre una soggettiva, una finestra sul cortile. E dalle finestre del 1997 si intravedeva un mondo nella fase preliminare di un mutamento radicale, sulla scia dei grandi dibattiti progressisti che hanno caratterizzato l’ultima porzione del XX secolo. Da allora sono passati vent’anni, la nostra tribù globale secondo alcuni è cambiata più esteriormente che interiormente e I Love Dick lo si ritrova sugli schermi dei personal computer e degli smartphone. Come libro? Anche, ma per un pubblico più generalista e divoratore di immagini in movimento ha assunto la forma di una serie televisiva (in streaming).
I Love Dick, TV series directed by Sarah Gubbins and Jill Soloway in 2016.
Alla fine, anche un’opera così apparentemente poco adatta alla trasposizione live action è riuscita ad ottenere il proprio adattamento televisivo, e come accade sempre quando si attua un’operazione di passaggio da un media all’altro, la restituzione filmica dell’originale è assai lontana dal concetto di “fedeltà”. Non tanto perché la famigerata storia, o trama che dir si voglia, non è esattamente la stessa – qualsiasi sceneggiatore si troverebbe in difficoltà nel trasferire sul piccolo schermo un complesso di informazioni talmente ampio e stratificato come quello di I Love Dick –, quanto perché è lo spirito stesso dell’opera ad essere stato depauperato. Ciò che si vede sullo schermo consiste unicamente nello strato più superficiale del lavoro di Chris Kraus, e forse neanche quello. Si tratta di una sintesi talmente estrema, deformata e deformante, a tratti fastidiosamente banale, che una volta conclusa lascia poco più che un vuoto nel cuore e nella mente dello spettatore. E non basta, ad esempio, rendere il sesso un elemento vitale – così come lo è nel romanzo – se poi non lo si approfondisce mai in tutta la sua componente filosofica e psicologica, anche se lo spettatore medio potrebbe trovarlo sufficientemente interessante (ed eccitante). Non bastano neanche le citazioni alla cultura pop e a tutto il macrocosmo artistico a rendere questo prodotto più profondo di quanto non lo sia veramente. Chris, Sylvère e Dick – quelli “veri” – non sono dei boriosi disquisitori di arte e filosofia: sono essi stessi l’arte, dalla fiamma vitale ormai prosciugata dal gelo della quotidianità, e la filosofia, fallace e forse insignificante. E il problema allora sta proprio lì, nei personaggi, che nella loro controparte visiva si trasformano in figurine eccessivamente stereotipate e al limite di quella demagogia che Kraus accortamente evitava, a partire proprio dal Dick del titolo (impersonato da un Kevin Bacon fin troppo macchiettistico nell’interpretare una parte già di per sé lontanissima dall’originale).
In definitiva, la serie ideata da Sarah Gubbins e Jill Soloway non è che una scatola coloratissima privata del suo contenuto, un evitabile e abbozzato ritratto di un qualcosa di ben più complesso e sincero. Durante lo scorrere degli ultimi titoli di coda ci si potrebbe interrogare se quel tanto discusso e decantato progresso, anche quello inerente alla raffigurazione della società e dei suoi interpreti nella contraddittoria industria dell’arte, stia veramente accadendo e se sì, con quali risultati. Perché questo, più che “I love Dick”, è un “I love you, Dick”. C’è un oceano a dividere queste due visioni. Un oceano che potrebbe dire che sì, magari qualcuno non ci ha capito proprio niente.