Kill tua wife
A short story written in Summer 2022 from which the visual artist Alessandra Giacinti developed a drawing in response.
[This text is in Italian]
Alessandra Giacinti, Mario e Ornella, 2022, colouring pencils on paper, 24×33 cm.
Image courtesy of the artist
La donna col cappello bianco dice:
«È stretto, non passo».
Nella stasi apparente del caldo d’agosto, il sentiero scende a mare sotto il cielo azzurro. Mario indossa una maglietta gialla. Ha bisogno di calma: serra i pugni e risponde: «Andiamo dai».
Una raffica di vento gli impenna il ciuffo di capelli lisci e bianchi, in mezzo alla stempiatura della fronte. La donna sorride, afferra un cespuglio di ginepro e tenta una scivolata laterale. Si ferisce ad una mano e comincia a piangere. Mario è miope. Va incontro al mondo per gradi. Un nero gli si para davanti, porgendo muto un portamonete firmato, di plastica fucsia con cerniera dorata.
Sulla testa porta una pila di borsalino in paglia, con la sinistra impugna un fascio di pochette. Mario si chiede «Who am I» come Elvis, perdendo la stabilità del corpo sulle caviglie. Il volto della donna lo raggiunge sotto il mento. È sua moglie, trasuda olio solare e domanda: «Mi fai una foto?».
Una coppia acquattata tra i cespugli convoca il nero.
Dei due, la donna ride, l’uomo osserva la merce: «Scusa, io iena ridens».
La direzione unica del movimento dice che la verità ha un solo senso.
Il giro del sangue dal cuore al cervello è pronto ad essere condensato nella frazione di secondo dello scatto della fotocamera. Un agglomerato di pixel insegue il colore per simulare l’eternità di un istante e tutto il resto va perduto. «Non stai bene», osserva Mario, arricciando gli zigomi sotto gli occhi. Bisogna smettere di andare nello stesso verso con l’ostinazione della banalità. «Allora metto il top rosso», risponde la moglie, che si chiama Ornella. Mario ha il becco adunco del saprofago, gli viene da sputare per terra, poi fa due metri indietro e guarda nello schermo.
Ci sono il granito dello scoglio modellato dal vento, la macchia mediterranea, il mare di cristallo vivo, azzurro e diafano. Ornella si piazza al centro dell’inquadratura, senza cappello, con le braccia in giù, la testa reclinata sulla spalla sinistra, le mani sulle cosce rotonde, con le dita allargate. Luccica come un’orata scongelata. È indubbiamente felice. Mario si allontana ancora un poco, per rimpiccolirne l’obesità serena. Il codice in bit esegue il suono dell’otturatore.
«Fai vedere», dice la moglie.
Si avvicina, con i capelli saldati in ciocche dalla salsedine, fissa la riproduzione della propria immagine e sorride, alleggerita del peso della coscienza.
Mario apre la borsa, prende la maschera blu a quadrante ovale con il boccaglio e si tuffa. Immerso davanti a una rosa di sassi sul pelo dell’acqua, con le appendici del corpo inquadrate attraverso la lente di vetro temperato, non nuota, avanza camminando. La sabbia fiotta in esplosioni al rallentatore sotto il movimento dei piedi, come l’effetto speciale di un film di serie B. Isolato in una delicata allucinazione liquida, Mario è Gulliver in un’Atlantide lillipuziana. Leva gli occhi dal fondo e li pianta dritto davanti a sé. Un orientale, con scriminatura al centro e lenti da sole clip-on, scivola alla deriva, appeso ad un’orca gonfiabile.
Funziona da amplificatore di percezione liquida, l’ipnosi della respirazione intubata dello snorkeling.
Corpo sciolto in fase di dissolvimento, Mario decide di riemergere. La spiaggia, immobile e velocissima, formicola come la scia di un fuoribordo. L’altoparlante fa partire Erase Rewind dei The Cardigans. Una donna in costume rosa inizia a ruotare atleticamente su se stessa. Un paio di unghie laccate di rosso, con un arabesco di strass opalescenti, reggono il volume Il genitore consapevole.
Un uomo disserta di economia: apparente stabilità, aumentare salari, l’oro di Nixon, modificare tassi, dare un segnale ai mercati. L’orrore brilla nitido, come una fila di traffico in controluce. Sulla sabbia ci sono una paletta gialla, un secchiello bianco, tre torri e un modellino gonfiabile di barca a vela azzurra. Un pattino commercia in gioielli di plastica.
Lungo l’aureola del tramonto, il nero compie il suo giro al contrario, coi borsalino in testa, una rete di palloni legata al polso, i racchettoni in legno giallo e le braccia aperte, sparendo come un Cristo risorto. L’orizzonte si sgrana e il sole si porta via il giorno.
Alla fine dei sogni, la mano rotonda afferra la cinghia della tapparella e la tira un poco su. La luce del mattino, modellata in semicerchi attraverso i fori dell’avvolgibile, traccia lo schema della sua geometria fluida sulla parete celeste della camera.
Il copriletto bianco è stampato a righe marroni
«Il catamarano parte alle 9», dice Ornella. Mario si alza dal letto, sul pavimento a quadrati blu scuro che intersecano quadrati blu chiaro. Lo specchio della baia fuori è segnato al centro dalla diagonale di tre imbarcazioni all’ancora, una dietro l’altra. Una colonia di alghe scure disegna una macchia sul fondale limpido, allungata in una forma vaporosa e inafferrabile, come uno sbuffo di fumo. Mario apre la confezione in plastica di un cornetto polimerico e lo inzuppa in un cappuccino di carta. Ornella pronuncia la seguente frase: «Veleggiata breve, carcere di massima sicurezza, splendide calette. Partecipanti minimo 6, max 12 persone».
Ha letto il depliant turistico dell’ufficio escursioni dell’hotel.
***
Il marinaio biondo issa la randa all’albero e la barca si dispone al vento con un colpo di timone.
A bordo ci sono Mario e Ornella; una coppia di francesi della Corsica, con una figlia pallida; una famiglia di Caserta; un sardo con la fidanzata russa; due intellettuali, padre e figlio, che tirano su il naso, per sentire la brezza sulla fronte scoperta. Il mare è blu, come la moquette blu di un ufficio bianco; l’approdo è verde e sul molo in legno c’è un trenino giallo e rosso, coi vagoncini disposti a ferro di cavallo. Un asino bianco attende i naviganti, come un souvenir.
Ornella porta un copricostume a rete giallo, il cappello bianco con la falda floscia, le flip-flop col fiocco in tinta. La strada, dritta e tesa, taglia in due la spianata di una collina di arbusti secchi. Sul lato sinistro un cavallo pare impagliato, a brucare le fronde, con la criniera riversa sul terreno. Si procede in salita verso l’edificio del carcere; senza parole, foderati nel silenzio pieno del paesaggio. Il senso di reclusione appare sovrapposto alla trama sconnessa dell’asfalto.
Mario si aggiusta i capelli con la mano, stringendoli alla nuca in una presa violenta, come per staccarsi lo scalpo.
«Cammina sei dietro a tutti», dice.
«Non vedi che non ce la fai?».
«Mi fai una foto?» gli risponde la moglie, che continua a stillare liquido denso dai pori della pelle.
«Sì, ti faccio una foto, sei bella, guarda come sei bella».
È il momento in cui l’uomo si scopre in fondo alla fila, l’ultimo sul ciglio del niente.
La luce accecante dell’estate inghiotte il paesaggio in un bagliore di latte, mentre le bocche della famiglia di Caserta restano semi aperte in uno stato di attesa.
Gli intellettuali discutono dell’autosufficienza alimentare dei forzati. Il marinaio biondo digita cifre sulla tastiera del telefono cellulare. «A-n-a-n-a-s» dice Mario. Ornella mostra i denti. Il lampo del flash conferisce la sua schiarita vivida a quelle ombre nel vuoto.
Il vento cessa di colpo e l’aria si arroventa. La francese della Corsica si fa vicino alla figlia: «Hai troppo caldo, cavallina selvaggia, sei tutta sudata», le dice. Apre la borsa frigo bianca con la zip pistacchio e tira fuori un ghiacciolo Calippo, al gusto coca frizzante. Le mura bianche della prigione aspettano dietro una fila di ulivi, oltre il pentagono di un giardino di sterpi. Per terra, davanti a una garitta di sorveglianza corrosa in crateri di ruggine, resta come il segno di un’esplosione: polpa rossa e buccia verde di cocomero.
«Che schifo», dice la russa. Poi scatta una fotografia, piegando leggermente il busto all’indietro.
Il sole disegna i corridoi del carcere in un reticolo di poligoni luminosi. Le porte blindate sono blu. Ornella entra in una cella: «Lì si attacca il televisore» dice, puntando l’indice sinistro verso un foro circolare in alto, da cui pendono tre corrugati arancio di cavo elettrico mozzato.
Chiude l’inferriata dietro le spalle e si volta stringendo le sbarre azzurre, con la fede in oro all’anulare destro. «Mi fai una foto?» chiede, con un morsetto al labbro inferiore, che le unge gli incisivi di lip gloss. Parte un bip acuto e il segnale rosso della batteria scarica inizia a lampeggiare.
Mario esce all’esterno a fissare un pezzo di cielo libero.
La forma dell’inespugnabilità produce l’ossessione della fuga.
«Soltanto uno è riuscito ad evadere», dice il sardo, citando a voce bassa Herman Hesse:
«La solitudine è indipendenza: l’avevo desiderata e me l’ero conquistata in tanti anni».
Al momento di andare, il catamarano lascia la banchina ruotando la prua di novanta gradi, diretto, con la propulsione del motore, verso una caletta poco distante.
«Pam!», fa il marinaio biondo, che stappa uno spumante, dopo aver terminato l’operazione di ormeggio alla fonda.
«Un brindisi.»
«Alla vacanza!»
«Alla libertà», dice uno degli intellettuali, con un sorriso storto sulla bocca.
L’atmosfera si raffredda e pare opportuno fare il bagno.
Gli intellettuali indossano maschere da subacqueo, a oculare singolo, di forma ovale; il sardo e la russa una coppia di bioculari a trapezio, con guaina in silicone rosa trasparente, che mostra, sotto l’alloggiamento per il naso, le narici occluse, leggermente deformate dalla pressione del loro involucro.
La famiglia di Caserta resta all’asciutto.
Di ritorno dalla nuotata a riva, la russa giura di essere stata sfiorata da un enorme dentice. «Era un’orata», corregge il fidanzato, «io me ne intendo di pesce». Il sole tramonta a mare dentro la medesima sfumatura arancio blu dell’alba, solo dall’altro lato. La pelle delle facce marroni affoga in una tinta di rosso, mentre il fruscio dell’acqua scorre lungo gli scafi del catamarano.
Mario è seduto con le ginocchia contro il petto, sul passo d’uomo di sinistra. Tiene il braccio destro steso contro il fianco, ruotando il polso verso l’interno senza piegare il gomito. Nella concavità del palmo della mano regge la fotocamera, con il pollice sul tasto dell’otturatore. Esegue autoscatti e verifica la risultante del suo aspetto sui centimetri quadrati dello schermo. Dalla sacca in canvas grigio, la radio sintonizzata sul canale di classica trasmette la voce fredda di una sinfonia di Brahms, arrocchita dalle interferenze ruvide del segnale, non perfettamente coperto. La musica svolge il suo ruolo di disinfettante estetico.
***
L’uomo più abbronzato della spiaggia è Luisito Suarez, gloria calcistica degli anni ‘60, mezzala con spiccata propensione al gol, soprannominato Architetto, in ragione della sua capacità balistica. La baia è un nodulo da importazione di progresso, sotto forma di sviluppo immobiliare. Adagiata sulla costa come una modella sul letto di Botero, la monumentale carcassa di un ecomostro di cemento protegge il sogno tropicale dei clienti del mare. Alle spalle dell’edificio, una collina sventrata da una sventagliata di villette, con muretti a secco e posto auto, finisce su un altopiano lunare, di rocce di basalto nero, dove la terra si rituffa in acqua lungo uno strapiombo di cinquanta metri, dritto sulla spuma delle onde, che esplodono nei soffioni degli scogli.
I pilastri di spazio e tempo nebulizzano dentro le note della prima sinfonia di Brahms, dal secondo canale di classica.
Al centro dell’altopiano, si determina ai sensi la forma di un fuoristrada bianco, con l’acciaio delle cromature battuto incandescente dal sole. La mano sottile di Mario spegne lo stereo del suo Suv compatto canna di fucile. Fuori, una coppia di sconosciuti si avvicina alla scarpata, tenendosi per mano.
L’uomo calza mocassini con le nappine, la donna tronchetti borchiati col plateau in sughero, da cui fuoriesce in punta l’estremità degli alluci smaltati di rosso.
«Andiamo!» dice Ornella. La serratura della portiera produce il rumore del suo sincronismo meccanico: «clang!» con un’apparenza inquietante. L’uomo coi mocassini guarda verso il basso, con la mano sulla spalla della donna.
Ha la faccia arancione, del colore di tubetto di abbronzante, il cranio calvo e lucido, con le basette a ciuffo e il mento sporgente da primate. Quando si volta, piegando la testa leggermente verso destra, l’occhio sinistro prende luce e annega in un chiarore bianco di sovraesposizione, mentre il destro rimane normalmente azzurro. Il labbro superiore sottile si infila sotto l’inferiore spesso e gonfio, in un abbozzo di ghigno. Si scavano due rughe ai lati della bocca e al di là del dettaglio orrifico, si forma la genericità di un’apparenza gradevole. Al polso porta un orologio di pregio, con cassa ambrata. Poteva resistere a una pressione di venti atmosfere sotto il livello del mare, poi sarebbe esploso. «Qui è il delitto perfetto», dice, portando in alto la punta del naso. Mario e Ornella verificano la consistenza dell’affermazione. Poi sorridono.
«Kill tua wife, così finish ogni problems»
«Yo torero, corrida, matador»
«Could you take a photo of me?» dice Ornella, rivolta alla donna coi tronchetti borchiati.
«Siamo italiani», precisa Mario.
«Mi dispiace dobbiamo andare», conclude il torero ed esce di scena, sgommando con il fuoristrada bianco sulla pietra liscia.
«Mi fai una foto?» dice Ornella.
L’ultima lastra di basalto, a forma di triangolo nero, si allunga verso il vuoto azzurro del cielo, dove il garrito di un gabbiano in volo connota di sospensione l’atmosfera.
Ornella apre la bocca in un sorriso. Blocca la mascella e stabilisce la posa nell’attesa liberatoria dello scatto. «Il nero sfina», dice, slanciata sulla punta del piede, con le mani sui fianchi e i talloni sollevati.
È l’istante decisivo: si concede come manifestazione inerte di oggetto, assente da sé, provando a sottrarsi alla volubilità dinamica del tempo. Mario la osserva oscillare, priva di equilibrio, vetrificata in una fissità di apparenza inorganica, libera della consistenza dell’essere. Fa un passo avanti, sente il tonfo dell’onda sullo scoglio, apre la mano destra e lascia cadere l’apparecchio fotografico. Ornella rinviene ma è troppo tardi. Con la mano sinistra Mario l’ha spinta nello strapiombo.