Oggetti inclassificabili.
Note sulla letteratura che racconta l’arte
The book Uccidi l’unicorno by Gabriele Sassone is the starting point of a conversation with Barbara Meneghel about writing – on art and ‘with’ art – and the need of blurring the categories of narration.
[This text is in Italian]
Ci sono due precise coordinate temporali che sigillano Uccidi l’unicorno, in apertura e in chiusura. La telefonata che mette in moto l’intero meccanismo narrativo sveglia il protagonista “alle undici di notte”; nella scena conclusiva, invece, “è appena sorto il sole” – e noi ci immaginiamo che siano circa le otto, in una qualsiasi giornata invernale lombarda. In questa precisa scelta letteraria di estensione temporale, viene in mente la Mrs Dalloway di Virginia Woolf, che va a comprare i fiori al mattino in una data qualunque nel centro di Londra: una manciata di ore che si aprono e si chiudono in uno dei grandi classici della letteratura moderna occidentale; e naturalmente, prima di lei, quel famoso 16 giugno 1904 di James Joyce nell’Ulisse.
Ne parlo con Gabriele Sassone, e lui mi risponde riferendosi a gabbie temporali e costrizioni narrative, “perché di fatto non avevo una trama. Quindi mi sono servito di un espediente molto semplice per avviare il racconto: ho messo il protagonista alle strette. Appena otto ore per preparare il convegno del giorno dopo; e appena un bilocale di 40 metri quadrati, nel quale dormono anche la moglie e il figlio neonato, come campo d’azione. Per l’appunto ho costruito una sorta di gabbia attorno a questo insegnante d’arte, che di fatto non si muove mai, e dunque il suo desiderio di evasione continua a crescere. Un desiderio di evasione che lo proietta nella storia dell’arte, nei ricordi privati e professionali, ma soprattutto nelle vite che avrebbe voluto vivere”.
E, infatti, nelle 220 pagine del suo libro, uscito un anno fa per il Saggiatore e vincitore dell’ultima edizione del Premio Giuseppe Berto, tra le undici di notte e il sorgere del sole scorre un fiume narrativo densissimo di pensieri, osservazioni, ricordi, citazioni, immagini – in un flusso di coscienza che abbraccia l’alto e il basso in una struttura fluida e paratattica.
“Mi interessava lavorare non soltanto sulla verticalità, sulla profondità dell’analisi interiore, ma anche sull’orizzontalità: le vicende che racconto stanno sullo stesso piano, senza gerarchie, perché è così che leggo il mondo. La cosa fondamentale era trovare un punto di partenza, l’immagine con cui si apre la storia. E cioè il ricordo di mio padre che, quando ero piccolo, si svegliava presto, accendeva la lampada e si preparava per andare in fabbrica. Adesso che anch’io sono papà, rimane per me uno dei momenti più dolorosi: sapere che esiste un potere, quello del lavoro, che strappa le persone dalle loro vite insieme e le separa.”
Ecco, quindi, che torna qualcosa dei grandi romanzi del XX secolo: la struttura psicanalitica, lo stream of consciousness che tanto risentiva della nuova disciplina freudiana mitteleuropea. Sei d’accordo?
“Certo, il flusso di coscienza, con tutte le sue variabili, è molto importante. La mia non è una deriva notturna, piuttosto una detonazione a catena. Giuseppe Berto ne Il male oscuro utilizza una composizione di tipo associativo, per temi e affinità, che ha condizionato il mio approccio: materiali diversi fra loro (le cose che studio, i miei desideri e le mie paure, ma anche quello che ascolto, che vedo, che ricordo e via dicendo) trovano una sistemazione temporanea, proprio come dopo un naufragio, e si dispongono sulla superficie dell’acqua. Ecco, questa è stata la fase più complicata: organizzare i frammenti di cui è composto il testo secondo una struttura”.
Come potremmo definire quindi Uccidi l’unicorno? Un testo di autofiction? Un memoir? Narrativa pura? Scrivo nei giorni in cui Einaudi pubblica in Italia l’attesissimo nuovo romanzo di Jonathan Franzen, Crossroads. Che, attenzione, è davvero un romanzo. Come giustamente osserva Francesco Longo nel suo pezzo su Rivista Studio dedicato al libro[1], Franzen esce nelle librerie come una rarità anacronistica, una voce fuori dal coro in un’epoca in cui “da anni, i libri più interessanti non sono più romanzi puri, ma libri sfuggenti che attraversano un terreno ambiguo, non appartengono a un genere preciso, sono per metà saggi e per metà diari, sono per metà memoir e per metà frutto di finzione, sono oggetti inclassificabili. Le parole d’ordine sono contaminazione, autofiction, scrittura ibrida”. Eppure, la domanda affiora sempre alle labbra di chi legge, di chi cerca di guardare al panorama letterario contemporaneo con un grado più o meno elevato di consapevolezza.
Ma anche Gabriele rifugge da definizioni, per il suo testo: “le categorie sono un problema per chi sta dall’altra parte – principalmente giornalisti e librai, che devono riempire dei contenitori precisi. Di fatto, l’ho pensato come una specie di anti-monumento. E cioè come un testo il cui registro letterario e i temi trattati non si misurano con il valore estetico delle opere d’arte, secondo un’idea di ecfrasi superata. Quando si scrive d’arte troppo spesso si leggono testi che, più o meno, servono da basamento per innalzare le opere, proprio come un piedistallo. A me interessa il percorso opposto, partire dall’arte per andare altrove, nel sottosuolo o nello spazio remoto”.
Perché Uccidi l’unicorno è innanzitutto questo: un libro che parla (anche) di arte contemporanea, mescolando le carte con la narrativa. In questo senso, volendo operare una classificazione piuttosto sommaria, ci sono due grandi tipologie di intersezione tra i due mondi: i narratori che decidono, da non specialisti, di ambientare nel mondo dell’arte le vicende dei loro romanzi; oppure, all’opposto, gli specialisti d’arte, professionisti del settore, che scrivendo ‘dall’interno’ decidono di dare una struttura narrativa a un proprio testo specialistico. Nel primo caso, il rischio è quello di trattare una materia delicata come quella dell’arte con mani grossolane: risulta quasi inevitabile, anche per i migliori romanzieri, cadere in qualche forma di ingenuità lessicale o contenutistica, soprattutto agli occhi dei professionisti del settore. Dall’altra parte, per un critico d’arte sperimentare con la narrativa rischia di diventare inutilmente pretenzioso. Che fare allora? Uccidi l’unicorno a quale tipologia appartiene?
“Direi a una via di mezzo tra le due. Da questo punto di vista, davvero illuminante è stato per me Città sola. Qui Olivia Laing Laing fa un’operazione estremamente acuta, vale a dire che legge l’arte attraverso il filtro della solitudine: a me interessava percorrere la stessa strada attraverso il lavoro culturale. Poi ci sono altri autori che si collocano su questo crinale e che riescono a gestire sia il linguaggio tecnico, specializzato, sia una forma letteraria di altissimo livello. Oltre a Laing, citerei Geoff Dyer, Ben Lerner e Tommaso Pincio, e anche Chris Kraus. Ognuno di loro propone qualcosa difficile da catalogare”.
Ma questi autori, a tuo parere, da chi vengono letti? Dagli specialisti, o dal pubblico generico?
“Me lo chiedo spesso. Fra le cose che più mi hanno fatto riflettere ci sono i Manifesti incerti di Frédéric Pajak. Che cosa sono? Qual è il loro pubblico? Ecco, a me interessa forzare certi limiti perché la forma è anche il contenuto. Questo modo di guardare il mondo è già scrivere, è già libro. Prendi il Sebald di Vertigini: mentre parla del suo viaggio in Italia, a un certo punto pubblica la foto di una ricevuta fiscale di una pizzeria di Verona, quasi volesse certificare che è stato lì, che il racconto è vero, eppure questa scelta manda la narrazione in tilt. Fa dubitare di tutto. Quella ricevuta, così innocua, ridefinisce le gerarchie con cui leggiamo la realtà e – dunque – acquista una rilevanza enorme. È il punto centrale del testo. Comunque, per concludere questa rapida panoramica sulla letteratura che si occupa di arte, bisogna citare anche Teju Cole. In Città aperta emerge la sua sensibilità di scrittore e fotografo, infatti il libro è difficile da inscrivere dentro un genere. Ecco, le proposte più interessanti per me viaggiano lungo questo confine sottile”.
Pensando invece all’aspetto più contenutistico del tuo libro, ho appena visitato la mostra alle OGR di Torino Vogliamo tutto, a cura di Samuele Piazza e Nicola Ricciardi (il titolo è preso in prestito dal l’omonimo romanzo di Nanni Balestrini sulle lotte operaie a Torino negli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta). Si tratta di un progetto espositivo genericamente dedicato al tema del lavoro – e a tutte le problematiche a esso legate, tra cui naturalmente il precariato odierno, la figura del free-lance, il ‘lavoro culturale interiore’. Penso, tra gli altri, al lavoro di Sidsel Meineche Hansen, The Manual Labor Series: una serie di xilografie realizzata a partire da lastre intagliate a laser, in cui Hansen prende in prestito una tecnica antica come la stampa su legno e la accosta alle sue ricerche teoriche sul nuovo tema del capitalismo cognitivo. Il nuovo tipo di lavoro (immateriale) provoca una serie di sintomatologie fisiche assolutamente assimilabili alle problematiche proprie del vecchio lavoro manuale – eppure ha completamente perso definizioni precise e possibilità di classificazione professionale. E questo artista cosa è oggi? Viene veramente riconosciuto come un professionista? È un ‘vero’ lavoratore? Quanto peso hanno avuto nel tuo testo questi temi rispetto a quello che mi hai detto finora?
“Il paradosso secondo me è questo: la fabbrica non è più una struttura di cemento costruita al di fuori di noi, che ci costringe a certe condotte e a certi tempi di lavoro, ma è una cosa che abbiamo interiorizzato. Ventiquattro su sette. La fabbrica è di carne, è la nostra stessa carne. E mi domando perché un autore come Federico Tozzi, che si è confrontano con questi temi già nei primi due decenni del Novecento, non sia rivalutato oggi, in piena crisi sociale ed economica. Ma lui non è il solo a essere stato accantonato. Negli anni Sessanta Lucio Mastronardi raccontava la stessa storia: le vicende de Il maestro di Vigevano rendono evidente lo squilibrio tra le forme di investimento nella cultura e ciò che il mercato del lavoro può assorbire. Ben poco. E la stessa dinamica si ritrova in Bianciardi, Volponi, Ottieri, Di Ruscio e Berto. La vita dei loro personaggi non è molto diversa da quella di chi oggi opera in ambito culturale: la fase autoriale, di produzione, è davvero risibile; il resto è comunicazione, gestione, compilazione. Quindi è proprio qui, in queste pagine insidiose di cui abbiamo parlato finora che andrebbero trovate le domande da porsi per reagire a questo squilibrio. O almeno per provarci”.