Il calcio
This text was written in 2019 for an unpublished Fanzine edited by Rome based visual artist Giovanni de Cataldo as part of his investigation of football supporters’ dynamics and visual codes.
[This text is in Italian]
Giovanni de Cataldo, Santi e Peccatori, 2019, print on satin scarves, 132 x 200 cm.
Da piccola guardavo sempre il campionato con la mia famiglia, tutti tifosi della Roma, mia madre ancora adesso non perde una partita. Ho tifato con ardore fino a una tragica Roma-Lecce che ci ha portato via il sogno di uno scudetto, poi con meno convinzione, poi me ne sono disinteressata: il calcio, che noia, adulti in mutande che corrono dietro a un pallone, i soldi, la corruzione, la violenza negli stadi, ma come si fa, c’è il sole, meglio uscire. Fino a quando ho incontrato Davide, che è venuto a vivere con me per la prossemica vantaggiosa con lo stadio olimpico, lui romanista del Roma club di Forlì, che è città di fede per lo più Juventina, saranno venti iscritti e uno è toccato, che fortuna, a me.
Come tutte le cose, anche la competenza sul calcio – quello guardato, non quello giocato – si impara. (Per dire: io ho un figlio che gioca molto, moltissimo, al calcio e ogni tanto mi allena – dice. Io invidio segretamente e anche apertamente le madri di figlie femmine che possono pettinare le bambole, e sto in porta. Anche al mare sto in porta: tiri in acqua. Con tuffo). E diciamo pure che ormai sono quasi brava – sia a giocare a calcio che a guardare il calcio – a riprova che l’allenamento – e questa è una cosa che del gioco in generale mi affascina immensamente, perché ha a che fare con i saperi, con il fare, con l’abilità di mente e corpo quando non sono disgiunte e dunque anche con l’arte – bene, l’allenamento serve. Nuovi riti degli ultimi anni: l’arrivo allo stadio per cantare Roma Roma Roma. L’inizio di campionato con Alessandro e Ilaria in Alta Versilia, in cerca di un bar che trasmetta la partita della Roma, e non è facile. Le partite viste in una trattoria di Tor Pignattara. O in casa di amici. O di amici di amici. O di sconosciuti. Conversazioni con sconosciuti sulla formazione, sul mercato, sullo stato di salute della squadra, ma anche sullo stadio della Roma, la società, la corruzione (encore). E ci sono giorni in cui penso con gratitudine al calcio e al tempo sospeso da tutto (testi da scrivere, lezioni da preparare, cose intelligenti da dire) che l’attesa di una partita, la visione di una partita, i commenti post partita (a Roma, il post partita dura fino alla partita seguente) mi regalano.
Poi certo, posso razionalizzare e dire che andare allo stadio è lavoro: aiuta a capire i meccanismi dell’arte partecipata, ma anche a comprendere esattamente di cosa si parla quando si mettono a confronto la nozione di luogo (site) e di contesto (context) e non si può pensare di prescindere da questa esperienza se si vuole parlare di performance. Andare allo stadio è utile anche per capire la questione del punto di vista che, Johnatan Crary docet, è dirimente ai fini di una corretta impostazione della spectatorship. E anche: guardando le fotografie che Giovanni ha raccolto per questo progetto si può impostare un piccolo corso di Storia dell’arte: c’è Caravaggio, Tiziano, Delacroix, Pellizza da Volpedo e anche Turner. Allo stadio, ripresi da un obiettivo, i tifosi si compongono come un quadro.
Non ho il biglietto per la partita di domenica e sarò l’unica della famiglia a non essere allo stadio – Davide accompagnerà mio figlio Filippo che va con la sua squadra di calcio e incontreranno mio fratello Claudio. Naturalmente i biglietti li hanno presi prima dell’annuncio del ritiro di Daniele De Rossi, ma un campionato così poco entusiasmante mi sembrava giustificasse il mio disinteresse a vedere l’ultima partita di quest’anno (e trascorrere una domenica in solitudine, che lusso). Naturalmente appena ho saputo del ritiro di Daniele De Rossi ho cercato un biglietto anche io – ma sono finiti. Subito. Dieci anni fa (e anche venti anni fa) non mi sarebbe importato niente. Oggi tantissimo.