From Here to Eternity – The Making
This conversation accompanies the solo show Emerge into Light by Sunil Gupta at Matèria gallery in Rome, 30 October 2021 – 15 January 2022.
[This text is in Italian]
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
Mark Sealy: 1999 è il momento in cui è stato creato From Here to Eternity, giusto?
Sunil Gupta: Esatto, sì.
MS: Nel 1999, dove ti trovavi all’interno del mondo della fotografia?
SG: Avevo toccato il fondo perché avevo avuto alcuni problemi di salute e questo mi aveva spinto a prendermi un po’ di tempo libero. Dato che ero un freelance, prendermi del tempo significava non avere molto reddito; mi ero iscritto [alla previdenza sociale] e facevo una vita piuttosto grama… C’erano sempre meno soldi e sempre meno possibilità. Inoltre, c’è stato un breve periodo di alcuni mesi in cui la mia salute era tale che non riuscivo a uscire da solo. La gente doveva aiutarmi a portare a spasso il cane o portarmi la spesa… Per un po’ sono diventato molto dipendente dagli altri. Le prospettive non erano delle migliori a quel punto, sai, era ora di ricominciare da zero.
MS: A due anni dall’inizio del New Labour [eletto nel 1997] c’era un certo senso di ottimismo sociale in giro; le cose cambiarono soprattutto nel primo mandato del governo del New Labour. C’era la sensazione che la gente volesse andare oltre le vecchie conversazioni di tipo laburista. È come se la sinistra socialista fosse stata emarginata, perché per chiunque si fosse allineato ai valori della vecchia sinistra, sembrava che il loro tempo fosse finito, perché era arrivato il New Labour e la “Cool Britannia” sembrava essere in cima al mondo.
SG: Sì, e avevo anche fatto un grosso investimento nell’attività curatoriale con quel franchising OVA per Inivia. I miei anni Novanta erano iniziati alla grande, avevo ottenuto questa borsa di studio straordinaria che mi aveva tirato fuori dall’insegnamento, cosa che all’epoca pensavo fosse positiva. Non dovevo più fare il pendolare settimanale per Hull e potevo lavorare da casa. Era un progetto entusiasmante. Con noi tre – Eddie Chambers, Rasheed Araeen e me – pensai che ci fosse qualcosa su cui lavorare.
MS: I franchise di Iniva furono una mossa molto audace da parte dell’Arts Council of England. Qualcosa che poteva crescere davvero, giusto?
SG: Era il 1992, prima che Iniva assumesse staff a tempo pieno. Noi facevamo le nostre cose ed eravamo circondati da un’atmosfera di supporto, grazie all’Arts Council e ai fondatori. La gente era molto ricettiva e, dato che mi era stato fornito un budget in anticipo… Questo aveva davvero cambiato le cose per me. Persone che oggi ricoprono ruoli chiave nel mondo dell’arte e che erano essi stessi dei freelance, mi chiamavano e dicevano: Posso lavorare con te? Io avevo i soldi, sai com’è…
MS: È straordinario ciò che riescono a fare i soldi in quanto a nuove amicizie.
SG: Già, poi a metà degli anni Novanta c’era stato un picco e per me è stato un po’ il momento di svolta. Iniva era sulla buona strada e avevano assunto lo staff; poi c’era stata la Biennale dell’Avana nel 1995 dove ero in mostra in veste di artista. Andai in compagnia del nuovo Direttore.
MS: Divenne tutto molto amministrativo… Istituzionalizzato, clienti dell’Arts Council.
SG: Esatto, istituzionalizzato. Io non partecipai, di conseguenza persi il mio budget, e poi mi ritrovai da solo. Mi rivolsi all’Arts Council e dissi: Continuerò a cercare lavoro come freelance, continuo a fare andare avanti l’azienda così, seguendo il mio progetto. Ed è proprio quello che feci, ma divenne molto più difficile perché era più complicato fare piani a lungo termine.
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
MS: Tutto dipendeva dal successo di un’application. Era come una montagna di reddito che dovevi scalare ogni anno, per trovare delle somme di denaro dovevi fare domanda e c’erano grosse possibilità che tu non venissi accettato, quella era una minaccia costante per Autograph, oltre ad essere un processo infinito nel quale dovevi dimostrare quanto valevi. In breve, gli anni dal 1992 al 1994 sono stati quelli che io chiamavo gli anni del franchising dove il processo di creazione divenne secondario e il processo curatoriale divenne primario.
SG: Sì, scaricai completamente il lavoro editoriale, non lavoravo mai per Fleet Street o cose del genere.
MS: Quindi c’era una specie di incrocio fra artista e curatore. È buffo… Eddie (Chambers) era un artista, Rasheed (Araeen) era un artista e tu eri un artista. C’erano questi tre uomini provenienti da punti di accesso molto differenti che ora lavoravano direttamente con gli artisti, da prospettive non eurocentriche. Erano molto interessanti e furono dei blocchi fondamentali per lo sviluppo di Iniva. Cos’è successo alla tua fotografia durante questo periodo?
SG: Facevo pochissima fotografia. Essenzialmente quei capitoli di Trespass, fatti al tempo, erano stati tutti innescati da qualcosa. Il primo partì da una commissione di Trophies of Empire, progetto del 1992. Nel 1994-95 vennero iniziati anche gli altri due. Uno su richiesta di Frank Wagner alla NGBK di Berlino perché figurasse in una mostra e uno per Focal Point Gallery, Southend. Le commissioni erano spartite fra loro e l’Essex County Council… Ecco perché la Parte 3 è tutta nell’Essex.
MS: Sì, potrebbe essere stato parte di una cosa chiamata Cross Channel Photographic Mission, o qualcosa del genere, giusto? Quell’organizzazione si focalizzava sulle relazioni della Gran Bretagna dall’altra parte del canale come risposta all’apertura del tunnel della manica. Anne McNeill, l’attuale direttrice della Impressions Gallery di Bradford, fu fondamentale per quello sviluppo; uno spazio che in seguito divenne Photoworks, che ora ha sede a Brighton.
SG: Forse, ma la donna che dirigeva la Impressions Gallery di York allora si chiamava Cheryl Reynolds.
MS: Esatto.
SG: Aveva rilevato la Impressions da Paul Wombell che era passato a dirigere la Photographers Gallery di Londra.
MS: Cheryl Reynolds, sì, mi ricordo. Abbiamo fatto qualche cosa con la Impressions quando c’era Cheryl. Era aperta alle conversazioni. Nel 1995 Cheryl ci aiutò a fare la mostra Rotimi Fani-Kayode dal titolo Communion alla Impressions. La Cross Channel Photographic Mission era una piccola organizzazione fotografica con sede nel sud est del Regno Unito che cercava di costruire delle relazioni dall’altra parte della Manica e monitorava le nuove normative che stavano per essere instaurate dall’Unione Europea. C’era molta attenzione sull’Unione Europea negli anni Novanta… L’immigrazione era decisamente al centro dell’attenzione. Mi sembra che quella storia non sia cambiata da molto tempo… Quella sulla paura della gente che arriva a invadere la Gran Bretagna. Credo che il canale fosse visto come un portale per una possibile invasione proveniente dall’Europa.
SG: È così che la vedevo io. L’Essex come portale verso il Regno Unito.
MS: Si può dire che al momento in cui avevi preso in mano la fotocamera per fare From Here To Eternity non ti trovavi in una bella situazione? L’attività curatoriale si era fermata, i fondi si erano prosciugati, i vecchi clienti della fotografia ti avevano scaricato, non lavoravi per un’organizzazione e all’improvviso ti viene diagnosticata una grossa malattia: l’HIV.
SG: Sì. Si aprì questa sorta di distanza fra me e quella che un tempo era la mia casa nell’ambito delle black arts. Non vedevo più quelle persone, non avevo più dialoghi, non incontravo più artisti neri da nessuna parte. Uscii da quegli ambienti.
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
MS: Credo che quello che succede quando diventi la persona che concede il grant è che cambia la relazione con le persone perché all’improvviso passi da essere uno che si arrabatta a quello su cui bisogna fare colpo. Me lo disse una volta Horace Ové, il regista.
E diventa piuttosto sgradevole… Le conversazioni vengono sempre filtrate attraverso quella lente del tu hai dei finanziamenti e io no. Può essere molto difficile essere alle private view quando ti rendi conto che qualcosa è cambiato nelle conversazioni.
Qualcosa cambiò anche intorno al 1999, questo senso di transizione reale. Mi ricordo che ti parlavo e avvertivo in maniera istintiva che non stavi bene, che le cose non erano a posto. Ricordo che mi dicesti qualcosa del tipo, voglio fare di nuovo dei lavori, e mi mostrai uno o due di quei pezzi che stavi facendo… Vediamo di ricordarci un po’ le cose… Tu e io ci siamo conosciuti nel 1986-87, e io ti avevo sempre conosciuto come fotografo. Ti avevo conosciuto tramite Trisha Ziff alla Network Photographers e c’era Mike Abrahams e tutta quella gente del progetto Camerawork Half Moon Photography, all’epoca. E ci chiedevamo come possiamo iniziare il processo per fare nuovamente dei lavori…
Ero assolutamente cosciente che la conversazione riguardo l’HIV stava in qualche modo sparendo dai programmi in termini di consapevolezza sociale, e fare questo progetto era molto importante per te. Parlare della vita pubblica e di quella privata fianco a fianco. La cosa mi interessava molto; ero molto interessato ai posti dove la gente interagiva ancora e al modo in cui sembrava che l’AIDS venisse semplicemente ignorata. La scena dei locali gay notturni era molto viva ma l’impatto dell’HIV sembrava venisse interiorizzato. Ero molto interessato a quello e all’onestà del modo in cui tu usavi il tuo corpo; alla tua relazione nei confronti del corpo, dello specchio, ai gradi di riflessione e a questi spazi di contenimento e desiderio, rappresentati da questi night-club.
SG: Penso che la prima fotografia fosse stata casuale, come spesso mi capita, e divenne la base del progetto; quella dello specchio e solo il mio corpo mentre tengo la macchina fotografica. Quella macchina tornò a essere usata; era la mia macchina editoriale che non usavo più… Era arrivato il digitale. Avevo messo la pellicola a colori nella vecchia Hasselblad, e la usavo a mano in una stanza di hotel. È stata una cosa del tutto accidentale, quasi come un selfie scattato col telefono ma – dato che era una 120 e una Hasselblad – divenne più di un semplice selfie.
Penso che tu abbia ragione. La conclusione in seguito alla diagnosi, almeno nei primi anni, pensavo fosse qualcosa del tipo la morte è dietro l’angolo, il mio tempo sta per finire. Mi fece pensare a ciò che ha veramente valore nella vita, a quello che fai. Pensai… Tutta questa amministrazione artistica che faccio, scrivere email alla gente e tutto quanto, a chi importa davvero? Quello che devo fare è scattare più fotografie e fare meno curatela. Ero legato alle attività curatoriali in termini di reddito, quindi era una specie di trappola. Tutto stava scemando e avvertivo la pressione dell’Arts Council. Le persone come me piano piano passavano ad altro e iniziarono a dirmi di stringere molto il mio focus – sugli artisti asiatici.
MS: Credo anche che internamente, dopo gli eventi del19 94, con l’istituzionalizzazione del ruolo dei neri in quanto tali, i finanziatori dicevano questi sono tutti i soldi che ci sono per voi, stanno tutti là ora e non venite qui per avere altri aiuti. Queste sono le cose di cui parlavo a Stuart Hall; lui era molto attento al fatto che ci fosse un pericolo di omogeneizzazione di un istituto che parla di tutte queste problematiche; era chiaro che agli occhi dell’Arts Council poteva esistere solo una organizzazione che si occupasse della diversità. Potevano dare priorità soltanto a una.
L’idea di Autograph – come mi venne detto direttamente dalle persone – ora era irrilevante con l’avvento di tutti questi cambiamenti. Quella sensazione nel sentirsi dire che Autograph/Photography non era rilevante andò avanti per molto tempo. Le organizzazioni di base più piccole venivano viste come troppo locali e non globali. Erano diventate molto più vulnerabili all’interno di questo clima.
Guardando From Here to Eternity, se vogliamo usare la tua vita nella politica nell’ambito delle arti nere, è un momento molto fragile, non ottimale.
SG: No, è in fase discendente…
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
MS: Si tratta di come sopravvivere a quello spazio e a quel tempo. Non penso che la gente si renda conto di quanto tutto fosse precario. Resistere come stile di vita era stressante a tutti i livelli. Quando guardo Shroud e Pleasure Dome, è quasi come se l’idea di piacere fosse morta.
SG: Sì, c’era uno smantellamento di cose attorno a me che si verificò molto in fretta negli anni Novanta. L’azienda iniziò quel decennio con diverse persone fondamentali che morivano, una dopo l’altra; era pazzesco.
C’erano le morti e le persone che alzavano le spalle e se ne andavano. Alcune persone dicevano, io me ne vado a Margate, non disturbatevi a chiamarmi, ne ho abbastanza di tutto questo. Quindi sentivo che tutto quanto stesse un po’ svanendo.
MS: Sembrava che qualcosa si fosse spostato da qualche altra parte. Ripensandoci, è come se quel settore facesse la corte a tutte le conversazioni che avvenivano al di fuori dell’ambito locale. L’altrove divenne il punto di riferimento, tutti quanti rincorrevano quel tipo di spazio come se fosse il calice d’oro, il Santo Graal. Sembrava che la gente lasciasse quel settore fisicamente e spiritualmente. C’era qualcos’altro là fuori nel mondo internazionale che veniva rincorso e tante cose a livello locale venivano lasciate indietro in termini di politica di supporto statale.
SG: La mia scena locale si rimpicciolì; a un certo punto c’era solo Joy Gregory… Smisi di vedere la gente perché non succedeva nulla in quelle conversazioni. Vedevo a malapena gli altri artisti neri di Londra. Quindi venni spinto a fare qualcosa e penso che quella situazione mi fece alzare e pensare al mio lavoro.
MS: Nel 1999 avevo lavorato ad Autograph per 8-9 anni e mi sembrava fosse un momento strano perché era come se fosse finito un enorme capitolo. Stava arrivando il nuovo secolo, alcune persone stavano diventando molto, molto famose grazie al loro lavoro, con mostre in grossi istituti, il che era fantastico. Yinka Shonibare era in ascesa, Chris Ofili era in ascesa, Steve McQueen in ascesa, soprattutto uomini in realtà. Era come se gli artisti tendessero a essere o diseredati o a diventare corporativi. Stavano aprendo delle gallerie e diventavano incredibilmente potenti, aprivano dei grossi spazi privati, giravano tanti soldi e tuttavia sembrava che se non eri su quel carro, se non venivi fatto salire, venivi lasciato indietro, venivi visto e considerato come marginale. L’Arts Council sembrava diretto dalla rivista Frieze, Art Angel e la Serpentine… Tutto quanto andava verso il blue chip, mentre sotto tutto questo c’erano molte persone che si chiedevano come orientarsi. Fu in quel momento che i curatori si presentavano con i vestiti firmati…
SG: Produttori…
MS: Tipo dirigenti della TV o di Hollywood.
SG: Con la valigetta…
MS: Venivano fuori le valigette e si chiamavano i taxi… La gente frequentava Regent’s Park e Mayfair tornava a essere di moda.
SG: Vero…
MS: Groucho Club, Fred’s o qualche altro club per soli soci erano i posti in cui potevi avere successo, quindi non c’era più Brixton, si era tornati al West End. Ed eccoti là, nel bel mezzo di un’emergenza medica. Medicinali, farmaci e isolamento.
SG: Sì, è vero. Penso che questa cosa dell’immagine del corpo divenne molto importante attorno all’identità maschile gay, dove la promiscuità e avere l’abilità di essere affascinanti era importantissimo. Inizi a sentirti una persona con cui nessuno vuole andare a letto e poi il trauma di scoprire la sieropositività. Tutte queste cose diventano fattori che ti fanno stare chiuso in casa, non vale la pena di uscire ed esporti a tutto questo. Iniziai a uscire sempre meno, anche a livello sociale. E fu lì che presi il cane.
MS: Sì, poi arrivò Babe…
Nel contesto di questa conversazione, se guardo a locali come l’Attitude e il Pleasuredrome è interessante perché nelle fotografie sono tutti chiusi, niente è aperto di giorno. Diventano simboli di forze impenetrabili di piacere e le droghe mantengono uno status quo di esistenza… ma è tipo esistere per cosa?
SG: Sì, è vero.
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
MS: Devo ammettere che pensavo davvero che fosse un modo molto audace di pensare al proprio posto in una comunità gay in quanto tale, o allo stile di vita, e che tutto questo ti venga portato via attraverso l’alienazione e l’erosione della fiducia in se stessi… Invecchiando e ammalandosi e poi venendo escluso e incastrato in questo limbo senza finanze o sostegno istituzionale. È un po’ come essere licenziati per essere qualcuno o aver raggiunto una data di scadenza.
SG: Sì, ed è successo tutto intorno ai 45 anni. Verso la metà dei 40 anni avrei dovuto arrivare da qualche parte… tutto è sparito all’improvviso.
MS: Succedeva qualcosa in India?
SG: No, allora non ero più stato in India da un decennio. Ho passato gli anni Novanta senza andare in India. Quando ho iniziato a occuparmi di curatela, credo di aver realizzato un solo progetto con l’India. Pensavo di andare oltre l’India, ho lavorato con un paio di artisti del sud est asiatico, ho lavorato con artisti australiani, canadesi e sudafricani.
MS: Il Commonwealth…
SG: Sì, insediamenti di coloni, paesaggi… Mi sono spostato di lato molto facilmente; nessuno ha fatto domande. Sono passato dalla piccola fotografia al mondo dell’arte e dicevo: la storia della pittura paesaggistica del 19° secolo bla bla bla, mettiamo Durban insieme a Melbourne, insieme a Toronto… tutti hanno i loro pittori vittoriani, bla bla bla, vediamo cosa ne pensano i pittori contemporanei di quella storia. Ecco cosa facevo, e tutti dicevano, wow!
Tutto questo fu possibile incontrando molta gente, facendo tutte queste conversazioni… Ho conosciuto Stan Douglas in un gay bar perché era un DJ lì a Vancouver, e non perché pensassi che fosse un grande artista.
MS: È fantastico.
SG: Sono convinto che devi uscire di casa e metterti in gioco.
MS: Anche quel senso di fluidità e i confini tra il fare e l’essere. Esserci dentro, essere nella scena… Amanti e conversazioni. Penso che le persone si confondano; ci sono molte nozioni conservatrici su come facciamo e chi siamo; e dove iniziano e finiscono le relazioni consensuali all’interno di quelle conversazioni.
SG: Sì.
MS: Babe sembrava essere un modo per uscire… Portare a spasso il cane.
SG: Sì, ti fa uscire due volte al giorno come ora ben sai.
MS: Ma pensavo che l’abbinamento più divertente in questo lavoro fosse Babe e poi Fist… (ride)
SG: (ride)
MS: Voglio dire, l’idea di accoppiare un cane vicino a un bar gay che si chiama Fist… (ride).
E poi quel paesaggio indiano, da qualche parte nella cornice… C’è una torre accanto e un arco. Ed eccoti lì che tieni in mano Babe e questa torre con l’arco.
SG: Oh, sì, sì, sì… è un famoso quadro del XIX secolo di Bourne e Shepherd del Qutb Minar di Delhi.
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
MS: Sembra che dentro ci sia qualcosa di architettura indiana classica, e tu sei lì, con questo palo fallico dietro di te e Babe (ride).
La cosa bella di questo lavoro è la casualità che si presenta in molte delle sue parti. Penso che alcune delle cose migliori vengano create nell’inconscio. Ovviamente, non è un momento casuale, è un atto di tenerezza molto deliberato. Contro lo stigma dell’HIV, per descrivere e riportare l’AIDS ai suoi primi periodi giornalistici, quando era la punizione di Dio… Una piaga gay. Queste narrazioni sono alla base di tutte queste domande e fobie dei media.
Come è nato il titolo Sunil?
SG: Stavo pensando al film From Here to Eternity, che è basato su un libro. Era il dopoguerra quando facevano i test nucleari nel Pacifico meridionale. Parlava un po’ di quel pessimismo della Guerra Fredda… siamo sul punto di saltare in aria. In effetti, da allora, ho capito che quel titolo stesso veniva da una poesia di Rudyard Kipling. Non ci crederai ma parla degli ultimi soldati britannici che sono usciti dall’Afghanistan nel 19° secolo. Scrisse… And here they are, from here to eternity. C’è un famoso dipinto di un momento simile alla Tate, che è stato esposto durante quella mostra incentrata sulla pittura coloniale: Artist and Empire. Curiosamente una sua riproduzione compare anche in uno dei ritratti di Lovers: Ten Years On, sulla parete in fondo.
MS: Sì, di qualche anno fa nel 2015.
SG: C’era questo grosso dipinto di un cavallo in Afghanistan. Un solo cavallo con un tizio sopra, era l’ultimo poliziotto inglese rimasto che stava tornando, tutti gli altri erano stati spazzati via.
MS: Questo si adatta abbastanza bene alla situazione attuale, giusto?
SG: Sì, assolutamente. Quando continuo a sentire tutte le cose sui talebani. La gente non capisce… quando vivi lì, loro sono la tua gente. Non vogliono che gli americani ti dicano cosa fare, nel bene e nel male sono la loro stessa gente.
MS: Mi ricordo il film…
SG: Up the Khyber Pass?
MS: (ride)… Carry On up the Khyber…
No, voglio dire il film con Burt Lancaster, che ha una tresca con la moglie del generale. Si chiama From Here to Eternity anche quello… Di nuovo, qualcosa che succede e che non dovrebbe andare avanti, qualcosa di represso, piacere represso. C’è la scena fantastica che li vede abbracciati sulla spiaggia, tra le onde, ma non possono stare insieme…
SG: Sì, lui sdraiato sulla spiaggia in costume da bagno tutto sexy, Burt Lancaster con Deborah Kerr o qualcuno del genere.
MS: Debra Kerr, Frank Sinatra, e il sofferente Montgomery Clift, che in questo film è incredibile; Frank Sinatra e il feroce Ernest Borgnine, che picchia a sangue le persone… È tragico.
È un titolo così poetico e carico, ma irradia ottimismo. Abbiamo messo in mostra il lavoro alla Standpoint Gallery di Hoxton, che purtroppo non esiste più. L’East End era ancora fattibile, era ancora possibile viverci, c’erano ancora dei monolocali a £ 3 per metro quadro, qualcosa ancora si poteva fare. Era più flessibile.
Sunil Gupta, Emerge into Light, 2021, exhibition view, Matèria, Roma. Courtesy Matèria, Roma. Foto Roberto Apa.
SG: Poi all’improvviso arrivò lì White Cube.
MS: Esatto… Proprio nel mezzo di Hoxton Square. E poi ha fatto bang! Eravamo a Hoxton Square, l’abbiamo vista crescere. Ed è stato wow, come facciamo, come sopravviviamo a questi colossi blue-chip che arrivano? Eravamo dietro l’angolo da White Cube… Jay Jopling, Damien Hirst alla finestra ogni giorno. E noi eravamo lì, in completa antitesi con quel momento. Penso che tu abbia detto una cosa giusta Sunil, perché sembrava davvero che non si sarebbero mai uniti alle nostre conversazioni o che non ci sarebbe mai stato permesso parlare in quel tipo di spazi.
SG: Sì, sentivo che alla fine di quell’anno tutto quanto era stato disfatto. L’intera YBA… Cos’era quella cosa di Blair sulla Gran Bretagna? Come si chiamava?
MS: Cool Britannia.
SG: Cool Britannia… Sì, che prende il sopravvento…
MS: Penso che parlare di politiche razziali e queer, femminismo e classe operaia… Non fosse cool.
SG: Credo che alcune persone pensassero che tutto si fosse risolto.
MS: Ritengo ci sia stato un momento in cui anche molti artisti neri si sono sentiti compromessi.
SG: Non volevano più essere neri, le donne non volevano più essere artiste. Era un ostacolo sulla loro strada perché tutti stavano cercando di arrivare là in alto.
MS: Tutti volevano essere nel White Cube in quanto tale… Era quello l’aspetto caratterizzante del successo.
SG: Non volevano farsi fare la lezione da niente e nessuno…
MS: Penso che ci sia un certo grado di amnesia in questo periodo. La storia è stata astratta. Penso che molte persone stiano negando quel periodo.
Penso che sia davvero un buon punto sul quale concludere il dialogo su From Here to Eternity, la Whitecubeisation della scena diventò la forza dominante, l’attrattiva primaria per la gente. Era deprimente, se non potevi entrare o non ti sentivi nella rete a strascico di quello sviluppo… E noi di certo non lo eravamo… Le cose rimanevano precarie.