Che cosa è rimasto di un Genet diviso in strisce tutte uguali, e steso su un tavolino
This text was written for the exhibition Una corrente che li trascinava nella notte, curated by the visual artist Sebastiano Impellizzeri with Sergey Kantsedal and Yuliya Say at Associazione Barriera in Turin, July 2021.
[This text is in Italian]
Joel Peter Witkin, Still life with breast, 2001, silver print on paper, 24×33,3 cm.
Photo: Gabriele Abruzzese. Courtesy Associazione Barriera
risuona il glas(s) spento di uno smartphone. Tutti gli puntano il dito contro per quello che c’è dietro, ma fermiamoci prima, concediamoci il lusso della superficialità. La levigatezza di uno schermo è il segno distintivo del nostro tempo secondo Byung-Chul Han: prima ancora dello sciame digitale c’è una coercizione alla trasparenza e alla sanità che cancella qualsiasi vuoto di visione, scartando tutto ciò che resta estraneo alla rappresentazione. Ma se un pelo incarnito è un disastro nell’inguine purificato dalla depilazione brasiliana, allora i nostri occhi possono diventare una ferita per non rispettare – non distogliere lo sguardo – e farsi trafiggere.
Una corrente li trascinava nella notte, installation view at Associazione Barriera, Turin, 2021.
Photo: Gabriele Abruzzese. Courtesy Associazione Barriera
Non sono mai stato giovane o aggiornato o lucido ma posso cominciare dal principio con ordine. Non per enucleare la verità, perché non è questo che voglio farvi. Ovviamente cominciò in casa, tutti raccolti quando Frans Banning Cock che sarebbe… il diavolo dei tavolini, i tavolini è una definizione inventata da lui stesso, una definizione senza parole, ma fatta di gesti: ci piegavamo fedeli al suo nome, ma quando ci pareva, esibizionisti ma senza parlarci addosso, tranquilli e silenziosi e come tanti Cristi. E Frans è proprio un santo che mostra le sue pieghe con orgoglio
La pelle delle dita delle orecchie delle labbra prova a comunicare con il touchscreen, ma non si crea un interstizio tra queste due opposte grammatiche della relazione: lo schermo non è impermeabile ma si impone di esserlo, la pelle lo è ma si concede a tutto ciò che la tocca. L’invito è raccogliere e, al contempo, tradire l’invito di Silvia Federici a spingerci oltre la periferia della pelle – non per fagocitare il reale o per armonizzarsi con la natura – ma per scorrere lungo i bordi di noi stessi e abitare il pellestizio. Non muoversi più tra due colonne di significato, ma immergersi tra gli strati della pelle, colando dentro questa finestra di vulnerabilità (che ci protegge).
Luigi Ontani, Tentazi Onan, 1969.
Color photograph, 100×200 cm.
Photo: Gabriele Abruzzese. Courtesy Associazione Barriera
È stata una storia di fughe, addizioni e infrazioni, distanti dal misticismo solipsista/mortifera sballifera o dalla costruzione di mondi del principe Galeotto. Reclusi, al limite, del testo, del mondo, dell’addomesticamento imposto dall’ultima peste – non potevamo continuare con la riproduzione del diverso (per far rifiorire l’ordine in altre forme) perché giorno e notte non sono una medaglia e non c’è nessuna salvezza perché chi passeggia nello scandalo. I nostri nascondigli non sono serviti per proteggerci o per opporci, ma a sviluppare un movimento che non nascondesse segreti: solo questa pelle attaccata alla mia pelle che stanotte si è trasfor(a)mata, aprendo uno squarcio tra dissoluzione e disseminazione.
L’oggetto (Gegenstand) levigato elimina la propria oppositività (Gegen). Il suo sudore, è il ricordo più nitido che ho di Francesco Macarone Palmieri mentre mi parla della skin city: una città porosa e unta che si rifiuta di essere sanificata per diventare piatta come un’immagine (20 anni di Cartesio – La nostra città sulla pelle). Scrivo per dare voce alle mie paure: che renderemo questo quartiere l’ennesimo simulacro di questa città triste, nascondendo le sue cicatrici e cancellando le sue macchie. Dove finisce la notte dove comincia la città? dove finisce la città dove cominci tu? dove comincio e finisco io stesso?
David Bowes, Friends, 2009, acrylic on canvas, 50×80 cm.
Photo: Gabriele Abruzzese. Courtesy Associazione Barriera
I miei amici più cari si sono rifugiati con tutto il loro essere in una ferita segreta. A carponi verso un orlo senza lati, abbiamo esposto gli uni agli altri i nostri tagli, per farli ricoprire di veleno e compiere un florilegio. Queste linee sul nostro corpo sono gli avanzi di una scrittura che non si rapprende in simboli, innesti per far germinare delle firme senza nome. Fiori varginali senza petali, immagini con gli occhi. Scusatemi per la presunzione, ma per qualche istante abbiamo sentito la campana a morto, suonava il sapere triplice del soggetto che non si custodisce e dell’oggetto che non si fa consumare, sempre in relazione gli uni agli altri e in se stessi, devoti a ciò che resta fuori. Vi voglio bene amic