Negus, ovvero come mostrare i rasta senza parlare del Rasta

by William Paolo Guarriello

A review about Negus (2016) by Invernomuto.
[This text is in Italian]

Invernomuto, Negus, 2013, set photo. Ph: Moira Ricci.

Il Rastafarianesimo è una di quelle cose che più o meno tutti affermano di conoscere, ma che nessuno capisce veramente. È una religione? È una filosofia di vita? È un forma di pensiero dogmatico che varia d’interpretazione a seconda del luogo e del periodo storico in cui viene professato?
Dopo aver guardato il film-documentario di Invernomuto – il duo di artisti formato da Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi – si potrebbe dire che è un po’ tutte e tre le cose, e anche di più. E non sarebbe affatto sbagliato dirlo, poiché a seguito dell’incoronazione di Tafarì Maconnèn come Negus Neghesti (letteralmente “Re dei Re”) d’Etiopia, avvenuta nel lontano 1930, le credenze sulla sua figura hanno iniziato a susseguirsi e mescolarsi fino a costituire, appunto, il suddetto Rastafarianesimo. C’è chi lo crede la reincarnazione di Cristo, chi un semplice leader spirituale, chi ancora un messaggero divino. Tutti concordano su un fatto: la grandezza dell’uomo. Un uomo a cui venne affidata l’ardua missione di proteggere la sacra terra etiope dalla minaccia fascista. Da Babilonia, il corrotto stato occidentale nemesi e antitesi dello Stato di Israele. Hailé Selassié I – questo il nome da Negus di Maconnèn, che sta per “Potenza della Trinità” – non riuscì nell’impresa. Poco importa: la sua figura era stata già consacrata.
Ma Negus non parla di vita, morte e miracoli di Selassié. Non è neanche un resoconto storico della guerra tra Italiani ed Etiopi, o un documentario sul perché dei dreadlocks. In verità appare difficile identificare con assoluta precisione il tema dell’opera di Invernomuto, che si dipana tra l’Italia, la Giamaica e l’Etiopia. È, più genericamente (anche se di generico c’è ben poco), un ritratto volutamente grezzo, quasi rude, dell’influenza che la post-conquista coloniale dell’Italia ai danni dell’Etiopia ha esercitato, esercita e con molta probabilità continuerà a esercitare su un tanto piccolo quanto rumoroso gruppo di individui.
Il Ras Tafari è divenuto motivo d’orgoglio e rappresentazione di speranza di un popolo che lo inneggia, e lo festeggia, cantando e ballando a ritmo di una musica esotica, trasportante, al limite del mistico. Così i bambini raccontano e spiegano i murales che ritraggono i pionieri del Reggae, idoli musicali dei loro genitori, zii e nonni. E nel racconto si susseguono, come in una danza, parole in patois giamaicano, silenzi, rumori della città, fruscii della natura e tante di quelle positive vibration che Bob Marley ha reso famose in tutto il mondo, anche se del Re del Reggae non se ne parla (particolarità che potrebbe spiazzare e forse deludere qualcuno). Sì, perché anche la musica è in definitiva un pretesto per mettere in scena una sorta di “perfomance filmica”, e non un argomento da trattare con quella profondità che sarebbe lecito aspettarsi se sullo schermo scorressero le immagini di un film di Michael Moore. Ma non è questo il genere di film che i due Simone hanno voluto realizzare, anche e soprattutto perché non ce ne sarebbe stato alcun bisogno. Di documentari sul Rastafarianesimo, il Reggae e il fascismo ce ne sono già tanti, e tutti abbastanza esaustivi. Ma nessuno di questi può vantare la sequenza finale di Negus, in cui un incredibile Lee “Scratch” Perry – leggenda vivente per chiunque apprezzi il Reggae (quello vero) – fa comprendere col corpo e con le parole cosa significhi veramente essere un Rasta, inscenando una performance di una misticità talmente trascendentale da uscire fuori, bucandola con tutta la sua potenza, dalla dimensione documentaristica del film.
Ritmo, felicità, speranza, fede e forza sono le parole che potrebbero meglio adattarsi a quest’opera, che magari non sarà il miglior documentario in circolazione, ma che ha il grande pregio di essere sentita, girata e vissuta col cuore. E in un periodo in cui lo spettatore assiste continuamente a rappresentazioni fredde, da libro di storia, della realtà che lo circonda, non è cosa da poco.

William Paolo Guarriello was born in 1998 in Monterotondo (Rome) from Argentine parents and lives in Fonte Nuova.
He graduated in 2017 as an advertising graphic designer studying at the Angelo Frammartino Art School in Monterotondo.
He enrolled in the Academy of Fine Arts in Rome in 2017, where he took the degree in 2021 in  Audiovisual Theories and Techniques with the intention of deepening the artistic and production dynamics of the film industry.
He is currently attending the master’s course in Information, publishing, journalism at the Roma Tre University.
Since the first academic year he started writing spec scripts forshort and feature films and he is currently writing for several
magazines on cinema, art, literature and philosophy.