Negus: il brillare del canto
Italian review of Negus by Invernomuto.
“Fuoco, fuoco, fuoco”. Così invoca l’aedo nero, dalle dita inanellate, del documentario Negus. “Fuoco, fuoco, fuoco”. La sua cantilena è un’invocazione alla fede, all’amore, all’unità. “Fuoco, fuoco, fuoco”. La cantilena cresce e cresce, s’eleva maestosa sulle onde dei bassi che ritmano la sua salmodia. L’aedo nero, dall’occhio fiero e brillante, cessa d’essere uomo, si trasforma nel cantare accorato che ribolle nella sua anima e nella sua carne. È il canto, il suo, del Rastafarianesimo.
L’essere rasta è il culto dell’identità africana – un’identità colonizzata e brutalizzata – che brama di rivendicare se stessa e ottenere la sua definitiva liberazione contro la mitizzata Babilonia, che simbolicamente incarna l’esecrabilità tutta occidentale della violenza e del denaro. L’invasione italiana in Etiopia, terra promessa dei rastafariani, terra natale del loro secondo Cristo, il negus Hailé Selassié I, diventa, in tal senso, una delle tante cicatrici che marchiano il corpus dell’identità africana. È dalla brama bruciante d’affermare la vitalità e la coesione delle identità africane che il movimento del Rastafarianesimo nasce in Giamaica, all’inizio del Novecento, e che s’espande, nel corso dei decenni, in tutto il mondo nero; ed il verbum del Rastafarianesimo si diffonde, tra le comunità africane e discendenti tali, attraverso la musica.
La musica, e la musica del tamburo nella specie, che secondo uomini e donne ridotti in schiavitù costituiva l’unico barlume di resistenza all’alienazione colonialista loro inferta, diventa, all’interno della filosofia del Rastafarianesimo, un’istanza sacra ineliminabile. L’abbandonarsi collettivo all’ascolto della musica, l’accendersi dei movimenti febbrili e dinamici delle braccia e dei bacini, costituisce l’acme vitalistico delle alternative messe rastafariane; è una celebrazione delle radici africane, e, come dichiara il musicista rasta intervistato, è “un distendersi d’onde sonore così basse che tutto ciò che è sciolto riverbera, e lo stesso cuore vibra”.
“Fuoco, fuoco, fuoco”. Così continua a invocare l’aedo nero, dalle dita inanellate. La sua cantilena musicata immette vita in coloro che lo ascoltano, crea e distribuisce flussi di dinamismo cosmico che si trasmettono da un individuo all’altro. “Fuoco, fuoco, fuoco”. La sua cantilena non solo è un’invocazione alla fede, all’amore e all’unità; essa sublima in sé le urla fiere e rabbiose dei neri schiavizzati che esortano alla rivendicazione del loro Esserci. “Fuoco, fuoco, fuoco”. La cantilena dell’aedo del Rastafarianesimo cresce e cresce, trasformandosi così nell’incedere mitico della storia, ancora non conclusa, della ricerca dell’”essenza nera”.