Le Chien
An insight into Alberto Giacometti’s production, starting from Le Chien, 1951.
Written during the workshop Art Writing Today: Sulle tracce di Carla Lonzi held by Allison Grimaldi Donahue (ABA Bologna and MAMbo, 2020-2021).
[This text is in Italian]
Mi sono sentito come un cane. Allora ho fatto questa scultura.
A. Giacometti, Ecrits, 1962
Quando ho incontrato per la prima volta Le Chien di Giacometti ricordo bene come immediatamente questa sottile scultura abbia catturato la mia attenzione, nonostante la sua collocazione defilata, in secondo piano e quasi nascosta dalle grandi sculture di figura dell’artista. Il cane, come le altre opere, appariva totalmente isolato, chiuso in se stesso e affaticato dalla sua solitudine. Ho sentito come una forte attrazione verso di lui, ma allo stesso tempo lo sguardo basso lo rendeva respingente – lasciatemi solo, che ci faccio qui in mezzo a questa folla di persone immobili? – sembrava volesse dire.
A proposito di quest’opera Genet ha scritto che “anche se all’inizio il cane fu scelto come segno di miseria e di solitudine, mi sembra che questo cane sia disegnato come un tratto armonioso, con la curva della schiena che riprende la curva della zampa, ma questo tratto è anche l’esaltazione suprema della solitudine”. Una solitudine, un isolamento che ci appare in tutta la sua forza nella materia quasi mangiata, erosa, dal tempo; oppure dal peso del mondo che questo cane sembra portare su di sé? È un cane magro, esile, con la schiena curva, la testa bassa, si trascina sulle zampe prive di forza ed energia, come se la pesante base che troviamo in tutte le sculture di Giacometti inchiodasse l’animale a terra, impedendogli qualsiasi movimento. È un randagio, un vagabondo che forse egli ha incontrato per le strade di Parigi, e così ce lo restituisce l’artista: ha forza di presenza, sembra camminare accanto a noi. Sappiamo infatti che per l’artista “ogni scultura, dipinto e disegno è legato a un momento particolare, a una data particolare della mia vita, segno della mia visione e della mia concezione in quel preciso momento”. Il problema principale per l’artista era rendere in scultura la visione, che è impermanente, fugace; ha dunque una breve durata nel tempo che porta inevitabilmente, nel pensiero di Giacometti, a una riduzione delle figure, come viste in lontananza o sbiadite nel ricordo. Così il cane, come le sue sculture di uomini e donne, è un’ombra bidimensionale e priva di spessore fino quasi ad arrivare a scomparire, in contrasto con la materialità e la solidità del bronzo di cui sono fatti; egli infatti “scolpì e disegnò i fantasmi più resistenti della storia dell’arte moderna”.
Tuttavia tale ragione formale, legata alla percezione, è sempre accompagnata da una componente personale o psicologica, cui la stessa forma rimanda. È un’ombra allo stesso tempo dotata di concretezza, tale da riuscire a colpirci, a ferirci quasi con la forza della sua espressività. E allora come possiamo non percepire, nella visione del cane rassegnato, un sentimento di angoscia, di disagio – potremmo dire – di fronte al mondo? Sartre affermava che quella di Giacometti è “un’arte che si guarda con sgomento”; ed è infatti proprio nell’esistenzialismo del filosofo francese che quest’arte trova la sua più forte risonanza. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’artista e il filosofo si conoscevano bene, e che il secondo ha dedicato al primo La recherche de l’absolu del 1948, in cui possiamo leggere la più sintetica definizione delle sue sculture, veri e propri “abbozzi che si muovono tra il Nulla e l’Essere”. Le sue figure sono dei tipi, siamo di fronte a un cane, un uomo; a eccezione dei ritratti, Giacometti non porta avanti una ricerca di individualizzazione; possiamo invece dire che egli abbia sempre realizzato figure anonime; ed è proprio in virtù di questa anonimia che le sue sculture possono rappresentare tutti e avere valenza sovrastorica; ancora oggi guardando il cane, interpretato spesso come autoritratto dell’artista, è possibile entrare in empatia con la sua solitudine, la sua rassegnazione, sentire la sua stanchezza. Come ha sottolineato Soavi, infatti, di fronte a queste sculture non percepiamo la “tragedia, la drammaticità” di un’esistenza che scopriamo essere solitaria e a volte alienante; Giacometti ci ha messo di fronte ad una presa di coscienza circa la fugacità della visione, come la fugacità dell’esistenza, e possiamo sentirci come lui, come un cane randagio, soli, isolati dal resto del mondo, con le orecchie basse e gli occhi fissi a terra, alla ricerca di scarti di cibo che non possono rinvigorirci perché “la vera fame è quella dello spirito”. È proprio per questa ragione, per la sua capacità empatica che questo animale bronzeo mi ha affascinato, riuscendo a toccare corde profonde e personali. Così, come l’artista “si è sentito come un cane”, io mi sono sentita come quel cane, infinitamente sola e vagabonda, senza direzione, senza alcuna spinta vitale. Incontrare questa scultura è stato come vedere materializzata la mia tristezza, la mia solitudine, che ho cercato di nascondere per troppo tempo. Giacometti era riuscito a dare forma concreta e realtà a ciò che io non osavo nemmeno pensare, ma che non poteva più essere ignorato. Di certo ogni individuo di fronte a un’opera del genere proverà emozioni diverse, per alcuni potrebbe passare del tutto inosservata, ma credo esista un codice visivo comune che consente a questa scultura di scuotere chiunque, anche solo per un momento.
Vengono di nuovo in aiuto a tal proposito le parole di Genet, il quale ha scritto che la solitudine delle opere di Giacometti, il loro essere sole a esistere, le rende insostituibili. L’arte di Giacometti ci parla della solitudine di ogni oggetto e di ogni essere. Continua Genet, tentando di dare voce a questi oggetti: “Sono solo, dunque preso in una necessità contro la quale voi non potete niente. […] Essendo ciò che sono, e senza riserve, la mia solitudine conosce la vostra”. La solitudine dunque è condizione esistenziale non solo degli esseri viventi, ma anche degli oggetti inanimati, dunque l’artista ci offre una visione del mondo costituito da singole unità individuali, ognuna chiusa in se stessa, ma che condivide con le altre questo stato dell’essere.
Un’interpretazione in chiave esistenzialista e psicologica dell’opera di Giacometti è spesso stata giudicata come scorretta e frutto del discorso di critici e filosofi, Sartre prima di tutti; ma non dobbiamo dimenticare il contesto storico, sociale e culturale in cui si colloca questa produzione scultorea. Ovvero nella Parigi del secondo dopoguerra, quando il mondo intero, l’uomo, prese coscienza della brutalità di cui è capace, della bestialità consumatasi nei lager nazisti e degli effetti devastanti della tecnologia da lui sviluppata con il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Si può infatti concludere che, al di là degli intenti formali, di ricerca sulla visione e resa della percezione, la produzione scultorea di Giacometti è frutto di quel clima culturale di cui faceva parte lo stesso Sartre, le cui radici e prime manifestazioni si trovano proprio negli anni contemporanei alla guerra. Non è un caso che le primissime sculture che hanno dato il via a questa nuova fase della sua produzione artistica siano state realizzate in Svizzera e poi apparse sui “Cahiers d’Art” nel 1946, poco dopo il ritorno di Giacometti a Parigi.