Il (mio) canto libero

by William Paolo Guarriello

A personal journey into human needs of being with and for the other stimulated by the lyrics of the Italian songwriter Lucio Battisti in Il mio canto libero.
[This text is in Italian]

Lucio Battisti, cover of the album Il mio canto libero, 1972.

Mentre ascoltavo una vecchia canzone di un cantautore romano che non è più tra noi mi sono reso conto di quanto siano effimere, per non dire false, certe frasi fatte sull’importanza della singolarità. Non quella fisica, bene inteso, ma quella dell’individuo come essere nel mondo. È una storiella neanche troppo recente, persino una questione etica e filosofica, quella del “tu vali più del mondo”. È anche utile quando attraversiamo dei momenti difficili e abbiamo la necessità di riprendere la nostra vita in mano, di guardare a noi stessi come eroi della nostra avventura personale. Quando, insomma, dobbiamo riaffermare il nostro Io sulle disgrazie che caso o destino o entrambi ci impongono. Ed è sicuramente vero che le disgrazie e i fallimenti aiutano a crescere, a imparare dai nostri errori. Ma non sono altrettanto sicuro del fatto che questa dottrina dell’andare avanti da soli, o per noi stessi, sia poi chissà quanto utile. Ovvio, nessuno psicologo o guru che sia direbbe al suo paziente in crisi di abbandonare tutto e tutti per intraprendere quel cammino ascetico di salvezza e liberazione che qualsiasi persona ha almeno una volta immaginato di intraprendere (probabilmente dopo aver visto qualche film o letto qualche libro), anzi. L’essere umano ha naturalmente bisogno di altri per riuscire a compiere le proprie imprese, a prescindere da quali siano i suoi obiettivi personali e il suo grado di egoismo. Tuttavia, è tremendamente pervasiva una certa tendenza, oggi espressa per mezzo di quei termini materialistici che prendono il romanticismo e lo tritano senza alcun riguardo, a considerare il singolo solamente in rapporto ai suoi fini, che a pensarci bene è un modo neanche troppo complesso di anteporre il prodotto alla materia prima – laddove il prodotto coincide col successo di una vita all’insegna del self e per materia prima si intende la complessità dell’animo umano, che forse (o quasi sicuramente) del successo in solitaria poco se ne fa. Potrà anche essere vero che per andare avanti si debba fare conto solo su se stessi, ma io credo che nessuno riesca ad andare davvero avanti. Non in questo modo, perlomeno. Perché il punto è: cosa significa andare avanti? È scontato che una persona debba continuare a camminare e a non fermarsi; cosa dovrebbe esserci di davvero illuminante in questo? Può esserlo solo per le persone che avanti non vanno, e in rapporto a questa condizione ha sicuramente una sua efficacia. Ma per il resto a cosa serve? A lasciare che le ferite si rimarginino col tempo? A migliorarci? A essere più competitivi, se ci concentriamo su noi stessi e sul percorso che dobbiamo costruirci? Non capisco, davvero. E non ho idea di come si possa riuscire a vivere così. Quello di cui ho idea, invece, è che forse questo andare avanti da tutti decantato non è altro che un modo per ricordarci costantemente che siamo soli. Il problema, ovviamente secondo la mia personalissima e non richiesta opinione, è proprio questo: per quanto sia probabile che siamo realmente e profondamente soli, trovo sia più probabile che crediamo a questa pseudo verità soltanto perché molto spesso, quasi sempre, non riusciamo a comunicare davvero con l’altro, a entrare in unità con lui; a vederlo, toccarlo e amarlo in modo talmente viscerale da non riuscire a considerare davvero l’alternativa di tornare indietro per svoltare in quella via che se avessimo preso la prima volta non ce lo avrebbe fatto incontrare. Che poi è innegabile che dietro questo mantra del self help, del “sii come uno scoglio, imperturbabile allo stagliarsi delle onde”, non si celi, paradossalmente, una certa dose di rabbia e frustrazione represse, oltre che di (poco sano) cinismo. Non lo so, non riesco proprio a farmelo piacere. Forse è perché sono un po’ emotivo, o un po’ romantico, o un po’ perennemente insicuro, ma davvero non capisco come non si possa ammettere la grandezza dell’altro. Grandezza che se capissimo davvero ci farebbe stare ben lontani dal distruggere il nostro prossimo, tradendolo dopo che la fiducia era stata suggellata. Ma tornando al concetto di unità, è davvero difficile trovare le parole adatte o un modo univoco e chiarissimo per spiegarlo. Mi vengono in mente gli zombie, per dire. Ci sono volte in cui incontriamo persone che ci fanno pensare: “cazzo, fino a ieri ero un morto che cammina”. Magari non eravamo neanche così, ma automaticamente quei noi di prima non possono che apparirci più vuoti e negativi, seriamente privi di scopo. Il dopo, invece, ci appare sempre splendidamente incredibile. È del tutto naturale che sia così, perché c’è la scoperta, la novità. Nuove sensazioni e giovani emozioni che si esprimono purissime, più pure che mai. C’è un cambiamento qualitativo e quantitativo del paesaggio, per citare Hegel in maniera del tutto gratuita e anche, lo ammetto, alquanto inattinente. Tutto ci appare nuovo, luccicante, attraente, magnifico, col potere di farci sognare cose che non possono che essere belle. È un fenomeno, questo, che accade a tutti, purtroppo poche volte nella vita in maniera così fulminante. Per alcuni si esprime all’interno di amicizie che vanno oltre il semplice “amici per la vita”, per altri in storie d’amore intensissime (quindi dolorosissime) e per altri ancora in dinamiche relazionali che non sono né l’una né l’altra cosa (ne ha parlato anche Platone a modo suo). Ecco, in questi momenti rarissimi fini e obiettivi esterni alla duplicità perdono qualsiasi valore. O meglio: persistono ancora, certo, ma sappiamo che non sarà il loro raggiungimento a costituire un cambiamento significativo in noi, perché il cambiamento reale lo abbiamo avuto in maniera non intenzionale nel momento in cui il nostro paesaggio (di vita) si è radicalmente modificato, cioè quando qualcuno ci ha scosso l’anima e il cervello scombinandoceli a tal punto da spingerci a mettere in dubbio le nostre stesse intenzioni e la nostra stessa persona (facendo contenti gli psicoterapeuti di tutto il mondo). Ma dandoci, allo stesso tempo, nuovi scopi che siano possibilmente più “alti” di quelli precedenti, che non sta per “abbandona tutti i tuoi progetti e scappa con me!” (questo non sarebbe amore a meno che tali progetti non riguardassero l’estinzione della specie umana, e anche in questo caso dei dubbi potrebbero sorgere). Naturale che sia così: il razionale, utile a perseguire i fini, non restituisce vere emozioni, mentre l’irrazionale, utile a darci e a dare un significato metafisico alle cose del mondo, sì. Quello che sto cercando di dire è che ciò che realmente ci importa non è essere qualcuno, prospettiva assolutamente autoreferenziale e priva di qualsivoglia fascino, ma essere qualcuno per qualcuno. Semplicemente perché, di questo ne sono convintissimo, interiormente non siamo il riflesso dei nostri sforzi (lo siamo esteriormente semmai, dove i nostri sforzi possono essere il riflesso della nostra interiorità al massimo in una dimensione “comunitaria”, di contratto sociale), ma la nostra capacità di rivederci nell’altro; nella nostra capacità di abbandonarci all’altro. In sintesi: preferiamo, anche se qualcuno è convinto del contrario, più il metafisico che il fisico. Nel profondo è così e prima o poi tutti se ne accorgono. Solo che questo concetto un po’ astratto e tanto (ma tanto tanto) romantico non è poi così popolare, almeno non all’interno dei limiti della sfera di duro pragmatismo in cui ci ritroviamo rinchiusi quotidianamente. Vuoi perché viviamo nel terrore, conscio o inconscio che sia, che le cose belle finiscano; vuoi perché molto banalmente nel corpo e nella mente siamo uno e non di più; vuoi perché ci propinano costantemente questa solfa del “never trust anyone”; vuoi perché nessuno ci ha insegnato ad amare come se farlo fosse l’unica opportunità che abbiamo; alla fine questa affascinante visione dell’essere come molteplicità e non individualità è rimasta sulle pagine di struggenti poesie, libri e sceneggiature. Quindi sì, in effetti non ha molto senso porre il senso (perdonate il gioco di parole) della nostra esistenza al di fuori della nostra persona per traslarlo su qualcun altro. Ma quando mai l’amore, perché di questo si tratta – a prescindere dai suoi caratteri (o livelli, riprendendo ancora l’allievo di Socrate) –, ha avuto un senso? Insomma, ce l’avremmo un’anima, uno spirito, un alito di vita no? Qualcosa che persista ai giochi del corpo e della mente, ai giochi dello spazio e del tempo, senza lasciarsi ammaestrare dalla razionalità disinteressata che sta invadendo e va macinando le nostre vite. Qualcosa che ci avvicini più al caos, scaraventandoci poi nella più completa mancanza di senso, che all’ordine.

 Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1637-38, oil on cancìvas, 85 cm × 121 cm.

Un ragazzo molto coraggioso ha scritto che “la felicità è reale solo quand’è condivisa”. Nel corso degli anni intorno all’aura di questa persona e delle sue gesta si sono aperti dibattiti di qualsiasi tipo: sociali, politici, poetici, filosofici, antropologici, spesso cestinando la sua esperienza di vita come una mancanza di acume e un eccesso di romanticismo. Non dico chi abbia torto o ragione, ma che chi ha scritto quella frase forse aveva capito il proprio errore, se di un errore si è trattato, quand’era troppo tardi e che sinceramente gli voglio bene. In fondo, a chi piacerebbe camminare lungo un sentiero in totale solitudine? Chi si sentirebbe bene nel profondo, felice, senza uno sguardo ricambiato, una parola, un sorriso, un abbraccio, un bacio, una carezza? Chi nel proprio intimo, nella profondità dei propri pensieri, si sogna da solo? Penso che nessuno possa farlo, semplicemente perché, oltre a un mero fatto evolutivo, se siamo come siamo lo dobbiamo a qualcun altro. Lo dobbiamo a chi ci guarda negli occhi, a chi ci parla, a chi ci tocca, a chi ci urla addosso, a chi apre la porta e a chi ce la chiude in faccia. Chiunque sia e qualunque cosa abbia fatto per noi, ci ha dato un senso. Anche se non riusciamo a vederlo, anche se non crediamo sia così. Il nostro senso, il senso del tutto, si mostra nel rapporto con l’altro. Infatti sarebbe meglio, e infinitamente più romantico, dire che “la mia vita ha un senso solo in te”, perché il senso ce lo dà l’altro e non certo noi stessi (provate a pensarvi da soli sul pianeta Terra. Vi trovereste un senso? Io no). Ad ogni modo, se non fosse così non avremmo avuto Leopardi, Goethe, Neruda, Dante, finanche la Bibbia e la filosofia tutta. Non avremmo niente, il vuoto assoluto. Eppure qualcosa abbiamo. E allora mi chiedo: sarà forse un caso che nell’era della freddezza, del distacco, dei mental coach e della supremazia della scalata sociale, sembra che la capacità di rivedersi nell’altro sia, più o meno volontariamente, abbandonata a se stessa? Oggi più che mai. Non si tratta di un rivedersi sociale, politico o filosofico, quanto di un rivedersi puro; un rivedersi che ci faccia davvero vedere l’altro come un miracolo spingendoci a squarciare quel velo di Maya che è l’immagine, la parola che ribatte l’altra parola su uno schermo, il compromesso tra ciò che si vuole e ciò che si può fare. Per questo le persone andrebbero contemplate nella loro solitudine, perché è in quel momento, in quella dimensione così personale, che esprimono realmente se stesse. E magari cercando di carpirle o di immaginarle nel loro essere soli nel mondo, seppur in mezzo alla gente, possiamo riuscire a vederle nella loro interezza, quando si avvicinano a noi e ci danno un pezzettino magari anche sbriciolato del loro Io. Cos’è poi questo Io se non il desiderio, il sogno, in rapporto con l’altro?
Sarebbe bellissimo se si potesse condividere qualcosa con qualcuno che si è scelto, aprendosi, parafrasando Heidegger, un mondo assieme a quel qualcuno. Le persone si aprono un mondo, costruendolo e diffondendolo al contempo, per abitare i mondi che altri a loro volta si aprono. Ogni giorno incrociamo un’infinità di mondi abitabili, fatti su misura per noi, ed è inutile cercarli nella vastità dell’Universo. Entrare in contatto con un altro mondo ti fa scoprire la verità: nessun fallimento, nessun successo, nessun ostacolo imposto da un modo grigio e comune di vivere la vita e sopravviverle, nessun fatto di orgoglio, nessuna paura, nessun disagio, nessun luogo e nessun tempo potrebbero restituire la poesia della condivisione, intima e profonda, che si mostra più vasta dell’universo e più piccola di un granello di sabbia. “In un mondo che non ci vuole più, il mio canto libero sei tu”. Il mio canto libero sei tu… La poesia esiste ancora, ma ormai si nasconde in piccoli diari e pezzettini di carta, nei disegnini di qualcuno che con la mano tiene la matita e con lo sguardo guarda qualcun altro, nelle canzoni cantate a bassa voce con un pensiero fisso in testa, nelle azioni talvolta piccolissime o apparentemente insignificanti che sono vere e proprie dichiarazioni d’amore. Amore rivolto a qualsiasi cosa. È il peso del mondo l’amore insegnava Allen Ginsberg nella sua Canzone, perché “sotto il fardello della solitudine, sotto il fardello della insoddisfazione, il peso, il peso che trasportiamo, è amore”. La seconda strofa di questo capolavoro si apre con la domanda di tutte le domande: “Chi può negarlo?”. Nessuno, penso. Che sia sano di mente o pazzo, perché anche i pazzi amano e vogliono amore. Dovremmo cercarle queste poesie di tutti, che esistono solo nella solitudine e che di banale non dicono mai niente. Non è un fatto di stile, bruci all’Inferno lo stile che importa solo a qualche studioso troppo annoiato che non ha amore a cui dedicarsi. È un fatto di espressione divina, ecco cos’è. Il Paradiso allora si rivela in ciò che le persone esprimono col sentimento, laddove Dio è la bocca che questo sentimento lo prova, lo pensa, lo pronuncia, lo dona. Che dolce meraviglia sono queste espressioni del sentimento. “Nasce il sentimento, nasce in mezzo al pianto…”. Il sentimento crea; poesie, disegni, canzoni, azioni. E queste poesie che nessuno leggerà, questi disegni che nessuno vedrà, queste canzoni che nessuno ascolterà e queste azioni che molti ignoreranno sono dannatamente meravigliose nell’amore che esprimono per l’altro e per l’essere con l’altro, a prescindere da chi o cosa sia l’altro. C’è tutto lì dentro, non c’è bisogno di cercare la verità da nessuna altra parte. Qualsiasi cosa queste espressioni dell’anima non contengano è da ritenersi superflua. Nessuna filosofia arriva alla verità più dell’esperienza emotiva delle persone. Lo credeva anche Shakespeare, che della verità dell’animo è stato un grande sostenitore, quando faceva dire ad Amleto che “ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia”. Cosa sono il cielo e la terra se non i contenitori e forse le massime espressioni dei nostri mondi interiori? Perché se avrete mai la fortuna di leggere l’interiorità di qualcuno, scritta, disegnata, cantata o agita che sia, vi renderete conto che le grandi questioni su cui interrogarsi contano davvero poco e che il mondo non gira attorno a voi stessi, ma attorno al continuo procedere di voi e quel qualcuno lungo linee rette, o forse saliscendi, che si toccheranno inevitabilmente e che continueranno a influenzarsi, a punzecchiarsi, a picchiarsi e a fare l’amore. Quando l’avrete compreso veramente, a tal punto che potrete sentirvi male, riuscirete a vedere tutte le cose visibili e invisibili, soprattutto quelle invisibili, sotto una luce nuova. Respirerete liberi. In un mondo che prigioniero è, insieme possiamo respirare liberi e la verità si offrirà nuda a noi. Non a te, non a me. A noi.
È quasi la rivelazione dell’assoluto, scoprire l’altro. L’altro ci dà il senso di noi stessi e dell’esistenza, ci dà il senso della nostra fallibilità così come della nostra grandezza, della nostra spinta vitale tanto quanto della nostra mortalità. La mortalità. Et in Arcadia ego, recita una criptica iscrizione riportata in svariati dipinti seicenteschi. Stavo pensando che forse non è la morte ad essere presente anche nell’idillio dell’Arcadia, come si crede, ma l’amore. Più che essere un memento mori queste parole potrebbero intendersi come un promemoria per ricordarsi di amare, no? In ogni caso il non voler morire da soli è uno dei desideri più comuni, veri, puri e densi che ci siano. È la dimostrazione stessa di quanto per essere qualcosa abbiamo bisogno di essere e di fare qualcosa per qualcun altro. Altrimenti come faremmo a non andarcene docili in quella buona notte, come Dylan Thomas scriveva? Se non abbiamo nessuno con cui guardarci e capirci e amarci fino a piangere di felicità e disperazione, come possiamo non accettare la fine con serenità? Non lo facciamo, e ci infuriamo contro il morire della luce, perché ciò che non vogliamo perdere non risiede in noi, ma fuori da noi. Perché noi siamo l’altro, siamo con l’altro, siamo nell’altro, siamo dell’altro e siamo per l’altro. Quando stiamo male perché perdiamo qualcuno, per le cause più disparate, soffriamo perché è un pezzo del senso di noi a essersene andato. Soffriamo d’amore, quindi. Soffriamo costantemente d’amore, tutti i santi giorni. E lentamente ci sembra di perdere sempre più senso lontano dagli altri, di cadere in un oblio alla fine del quale vorremmo, desidereremmo con ardore, vedere soltanto chi dentro quel vuoto cosmico ci ha spediti con la sua dipartita. Vorremmo abbracciarlo forte, sempre più forte, per un tempo che neanche l’eternità può raggiungere, mentre l’immensità si apre intorno a noi al di là del limite dei nostri occhi.
Come si fa allora ad andare avanti, a superare le cose e ad accettare la nostra condizione, senza qualcuno, e non qualcosa, a cui dedicarci nella nostra totalità, anima e corpo? Come si fa a contrastare il nulla assoluto che sembra dipanarsi dinanzi ai nostri occhi, senza condividere la visione con occhi che non sono nostri? Come si fa, in definitiva, a vivere in completezza la nostra vita, se nella nostra vita gli unici a cui dedicare le nostre emanazioni, in tutta la loro effimeratezza, siamo noi stessi? Semplicemente, non si fa. Non riusciremmo mai e nessuno di noi, per quanto ci si possa sforzare a convincersi del contrario, riuscirebbe a credere a una tale menzogna, a patto che la sincerità con noi stessi, i veri noi stessi, non venga meno. È amor proprio ammettere che abbiamo necessariamente bisogno di condividere per dare una dimensione reale e veritiera alla nostra felicità, e anche alla nostra infelicità, come scriveva il ragazzo solitario che viveva sul bus. È amor proprio ammettere che i mondi che decidiamo di abitare, e le persone a cui lasciamo un invito per invadere il nostro, sono il canto libero che necessitiamo per sopravvivere alla prospettiva di galleggiare nel vuoto senza che ci sia una corda che, stretta forte attorno al nostro petto, ci ricordi che no, non siamo poi così soli. Anche Witt de La sottile linea rossa, l’uomo che vive per l’altro, scorgendo la poesia e l’amore anche nell’anima più arida, crede nel canto libero. Lui ama, desidera amare e vorrebbe essere amato; vorrebbe che tutti si amassero e si rivedessero nell’altro. È l’uomo che riesce ad aprire gli occhi all’ormai disilluso e cinico sergente Welsh, che, sebbene continui a non decifrare a pieno la filosofia di Witt e a non credere nella permeabilità dei mondi interiori, comprende per la prima volta la vitale importanza dell’altro. “Se non ti incontrerò mai in questa vita”, dice, “almeno che io senta la tua mancanza. Uno sguardo dei tuoi occhi e la mia vita sarà tua”. Perché? Perché non possiamo imparare a donare la nostra vita agli occhi che ci guardano? Occhi lucidi, assetati di un qualcosa, magari di un tocco di dita, che possa restituirgli un po’ di felicità, magari addirittura la pace assoluta o una parvenza di serenità. Quando il sentimento nasce in mezzo al pianto s’innalza altissimo e va, va e va. Più veloce della luce, più luminoso del sole. “E vola sulle accuse della gente, a tutti i suoi retaggi indifferente”. Mamma mia questa canzone. Dovrebbero ascoltarla tutti, almeno una volta al mese se non una volta al giorno. Tutte le belle canzoni d’amore e di speranza andrebbero ascoltate, quantomeno per comprendere che al sentimento si può dare una forma capace di resistere al declino del tempo e del cosmo e che sia indifferente a tutti i retaggi della gente.

Still frame from La sottile linea rossa di Terrence Malick, 1998.

Io, con tutta sincerità, nel mio mondo non ci voglio vivere. Preferisco esplorarne altri, sperando di passare le notti sotto un tetto troppo grande per un’anima sola e troppo piccolo per contenere la molteplicità. Le stelle, forse, sarebbero case migliori. D’altronde sono da sempre l’orizzonte per occhi che guardano in sincronia, no? Sarà. Fatto sta che alcuni mondi, quando iniziamo a esplorarli, ci migliorano come individui, come persone, come esseri. Subiamo dei cambiamenti che ci avvicinano sempre più alla verità, sempre più a quella liberazione dal mondo che è sia prigioniero sia carceriere. Sì, questi mondi ci fanno andare avanti. Ci fanno correre proprio, fino a volare se continuiamo a restare in piedi nonostante gli ostacoli. Per questo devono essere loro il nostro scopo, il nostro fine ultimo. Non deve essere dipendenza, che ci distrugge senza lasciare niente, e neanche egoismo mascherato di orpelli, che vede l’altro come uno strumento per compiere nient’altro che se stessi. È in verità la più alta forma d’amore, la massima espressione di un’eterea dualità per la dualità, del noi per noi. Non ha importanza fin dove e quanto riusciremo a conoscere questi mondi, se ci fermeremo a contemplare le onde dei loro mari immensi o se respireremo l’aria delle loro altissime montagne. In fin dei conti ciò che conta veramente è poterci camminare e a modo nostro, anche nella maniera più intima e impercettibile, prendercene cura, nutrendo il sogno di vederli prosperare anche grazie a noi. Poi, come si dice, il tempo ci dirà. Ma soprattutto, lentamente, ogni giorno di più, capiremo nel nostro intimo il miracolo che stiamo vivendo e la fortuna che abbiamo avuto nell’essere riusciti a trovare il bello in mezzo a tutto quel marciume contro cui siamo costretti a combattere costantemente e che finisce per sporcarci l’anima, privandoci della forza che necessitiamo per credere che solo insieme, e non da soli, tutto acquisisce un senso. Così ameremo ancora e sempre di più, senza pretese, senza richieste, senza compromessi. E per quanto queste parole possano apparire come romanticherie piene di illusioni banali e melense, mi piace credere che la verità sia quella che credo di aver scoperto: c’è molto di speciale da incontrare e tutto ciò che dobbiamo fare è dargli uno spazio nel nostro piccolo, strano mondo e tenercelo stretto ad ogni costo. Perciò, chiunque tu sia, anima familiare o a me sconosciuta, e ovunque tu sia, se vicino o lontano da me, voglio che tu sappia che sei il mio canto libero e che ti canterò fin quando avrò voce. Allora si alzerà un vento tiepido d’amore, di vero amore, e io riscoprirò te.

William Paolo Guarriello was born in 1998 in Monterotondo (Rome) from Argentine parents and lives in Fonte Nuova.
He graduated in 2017 as an advertising graphic designer studying at the Angelo Frammartino Art School in Monterotondo.
He enrolled in the Academy of Fine Arts in Rome in 2017, where he took the degree in 2021 in  Audiovisual Theories and Techniques with the intention of deepening the artistic and production dynamics of the film industry.
He is currently attending the master’s course in Information, publishing, journalism at the Roma Tre University.
Since the first academic year he started writing spec scripts forshort and feature films and he is currently writing for several
magazines on cinema, art, literature and philosophy.