Based on Facts

by Rebecca Moccia

This text is based on a conversation between the visual artist Rebecca Moccia and the writer Nicola Lagioia happened in February 2021 for the Castro Project Public Program.
[This text is in Italian]

Rebecca Moccia, Rest your Eyes, 2020, projection, filter, audio monitor, news in live streaming, 2020. Installation view.

Parlare con Nicola Lagioia di una vicenda di cronaca brutale, della città di Roma, di opere basate sulla realtà e di una loro possibile funzione oggi; di luoghi e di media che informano le esperienze e le persone; della solitudine generale o particolare, per “provare a sentire l’aria in maniera diversa”.

Negli ultimi mesi del 2020 lavoro a Rest your eyes, un’installazione audio-video fatta di news, immagini e suoni che si susseguono filtrati al punto da diventare solo cromatismo e brusio che si riverbera sugli ambienti e sulle persone che li percorrono.
Nel mio circoscritto universo di artista, e forse in quello di alcune/i mie/i colleghe/i, qualcosa nel 2020 si è allontanato.
Allontanate le mostre – quelle grandiose e quelle trascurabili –, allontanati gli eventi, le fiere, l’agitazione della produzione, i treni e le birre fuori dagli opening. Rimangono pensieri agrodolci, logiche sbagliate, pochi valori condivisi, abitudini radicate/improponibili e la domanda “Perché facciamo tutto questo?” e “A cosa serve?” diventa ostinata.
Alcune cose succedono su zoom. Si ritorna a parlare di concetti come realtà e finzione. Si ritorna a parlare di lavoro e di soldi. Si ritorna a parlare di come stiamo; di solitudine e di politica.

Sono giorni inestesi, di tentativi di riconoscersi e di tentativi maldestri di lavorare in cui irrompe l’attualità, il tempo passato davanti alla radio, ai giornali, al telegiornale – da guardare SOLO UNA volta al giorno: nuovi rituali domestici composti di immagini di discorsi e di proclami elettorali di anziani che muoiono, di drammi e di cose irrilevanti, di vaccini, di relazioni, di ministeri, di proteste, di un futuro ambiguo come una speranza inemendabile, che non si può correggere, che “non ci si può fare niente”, ma che non arriva mai.

Mentre realizzo questo lavoro e rifletto su queste cose mi trovo a Roma, una città da cui mi sono allontanata neanche maggiorenne perché avevo la sensazione che, se fossi rimasta, non sarei mai riuscita a fare niente.
Oggi mi conferma di poter respirare un clima di eterna smobilitazione, in cui il cinismo più atterrante, insieme a una libertà sregolata e inebriante, sembrano annunciare che per la capitale il Covid sarà solo un acquazzone un po’ più forte.
In questo quadro incontro La città dei vivi, ultimo romanzo di Nicola Lagioia, uscito a ottobre 2020 per Einaudi e le cui assonanze con il lavoro con cui mi sto confrontando e quello che sto provando mi si rivelano ancora più chiaramente quando invito l’autore ad un talk, in occasione del public program di Castro Project.

LA FACCENDA ROMANA

Nicola Lagioia: La faccenda romana, cioè “se fossi rimasto a Roma non avrei combinato niente” purtroppo è un leitmotiv della città: due persone molto celebri che hanno detto una cosa simile sono i fratelli Gallagher i quali, venuti a Roma a fare un concerto, dissero: “Beh… In realtà se fossimo nati a Roma, se fossimo vissuti qui, la band non l’avremmo proprio messa su, perché saremmo andati al mare ogni giorno a Ostia o a Fregene e avremo cazzeggiato per tutta quanta la città che è meravigliosa”. Effettivamente Roma ha questa capacità di generare entropia che è anche una delle leggi che governano o che sgovernano l’intero universo; quindi Roma ha qualcosa di universale.
E per quanto riguarda la faccenda dei media, Carmelo Bene diceva che “informano i fatti e mai sui fatti”, cioè non ti riportano molto spesso le cose che sono successe ma le informano, gli danno la loro forma.
Ma perché stiamo dicendo tutto questo? Perché La città dei vivi non è un romanzo di finzione; è quello che gli americani chiamerebbero non-fiction novel o novel based on facts.
Questi sono nomi abbastanza nuovi ma l’Italia ha una tradizione molto importante di questo genere di opere letterarie che si occupano della realtà; opere che non inventano ma che reinterpretano la realtà, la traducono secondo altri codici. Da Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli, a Primo Levi con Se questo è un uomo – che non è un romanzo di finzione, ma al contrario quello che racconta è davvero accaduto; ci vuole lo sguardo di uno scrittore per gettare sulla realtà una luce diversa rispetto a quella che getterebbe il giornalista, lo storico, l’antropologo o il filosofo.
Nel caso de La città dei vivi al centro del racconto c’è l’omicidio di Luca Varani, un ragazzo di 23 anni che fu trovato morto in un appartamento del quartiere Collatino nel marzo del 2016, per mano di Manuel Foffo e Marco Prato.  Roma non fa da semplice sfondo ma è uno dei protagonisti.

Capture from 2016 Google Street View of the building at 14 Via Iginio Giordani, where the murder of Luca Varani took place. Collatino neighborhood, Rome.

NON-FICTION NOVEL
Come e perché lavorare con il reale?

N.L.: Una volta che ho scelto di occuparmi di questo caso, e una volta che inizio a raccontare un fatto reale, non una storia inventata e vista la delicatezza della questione – c’è stato un morto vero, anzi due morti, perché poi uno dei due responsabili si è, a propria volta, suicidato in carcere (Marco Prato), molte persone stravolte, devastate da quello che era successo – non si poteva inventare, non si poteva prendere il fatto e ricamarci troppo sopra.
Però per me era la prima volta: ho sempre scritto romanzi d’invenzione ed effettivamente è lecito chiedersi perché, e non è detto neanche che io abbia la vera risposta definitiva.
Da una parte il caso mi era proprio entrato dentro per tutta una serie di motivi: per la violenza inaudita che fa assomigliare questo omicidio più a un omicidio rituale che non a un classico delitto metropolitano; che non ci fosse alcun movente, nessun motivo, nessun vantaggio che Prato e Foffo potessero ottenere dall’omicidio; il fatto che fossero persone considerate normali fino al giorno prima; infine, forse la cosa più sconcertante di tutte, che entrambi, pur riconoscendo la gravità dell’accaduto, faticavano a ricondurlo a un atto di libero arbitrio, di libera scelta. Questa cosa per me era molto inquietante.
Questi motivi mi hanno colpito; però poi c’è una domanda, ancora ulteriore o precedente: Perché me ne sono occupato? Perché potevo anche inventarla una storia del genere; è un periodo in cui il racconto di fatti veri sta ottenendo un certo riscontro. Pensiamo al documentario su San Patrignano uscito su Netflix o al fatto che quest’anno il film italiano candidato agli Oscar è il film di Gianfranco Rosi che non è un film di finzione ma un documentario; pensiamo ad altri libri, anche meno noti, ad esempio un libro di Masha Gessen, una scrittrice poco conosciuta in Italia, pubblicata da Sellerio, che si chiama Il Futuro è storia e che ripercorre la storia della Russia dalla fine dell’Unione Sovietica all’era di Putin, con una strategia narrativa anche se parla di realtà.
Ma che cosa stanno, stiamo, facendo? Mi ci metto in mezzo pure io?
Ovviamente la madre recente di tutte queste strategie narrative è una grandissima scrittrice russa che si chiama Svetlana Aleksievič che ha vinto anche un Nobel per la letteratura. La serie su Chernobyl, uscita lo scorso anno, era ispirata a un suo libro che si intitola Preghiera per Chernobyl in cui lei ha intervistato centinaia di persone che avevano avuto a che fare con la centrale nucleare, per mettere su una specie di controcanto rispetto al canto mortale della centrale e che restituisse, lì dove molte cose anche allo storico sfuggono, ciò che era successo, con una forza emotiva di cui altre discipline sono, per forza di cose, sprovviste.
Sarà che la realtà è diventata così indecifrabile, così complicata?
Quando eravamo ragazzi i criteri di interpretazione del mondo erano molto più semplici, quelli novecenteschi. C’era il mondo diviso in due blocchi: da una parte c’era il Capitalismo, dall’altra parte il Comunismo. C’erano delle grandi ideologie; quando le ideologie sono due si può ancor parlare di ideologie; quando è una sola non si può più parlare di ideologia perché è il contesto in cui viviamo tutti quanti, o quasi; quindi è come se si vaporizzasse nell’aria, è come se tu avessi uno strumento in meno per leggere la realtà.
Di conseguenza la realtà è diventata molto più difficile da decifrare oggi rispetto a ieri perché l’ideologia – fallace o non fallace che sia – è una stele di rosetta attraverso cui tu puoi tradurre. Oggi non ne abbiamo una; o, meglio, non ne abbiamo ancora perché siamo in un lunghissimo periodo di passaggio; chissà che la pandemia non segni la frattura più profonda di questo periodo.
D’altro canto però abbiamo un’informazione che invece è proprio pervasiva: siamo bombardati da tentativi superficiali; intendo superficiali non con un’accezione negativa, ma proprio a livello ontologico: un tweet è per forza superficiale, è difficile sia profondo. La letteratura, di conseguenza, può diventare uno strumento, perché capace di sollevare complessità, coinvolgimento emotivo e sintesi, e può accorrere in qualche modo in soccorso della realtà, in un periodo in cui la realtà ci fa paura più di prima ed è più indecifrabile.

NON-FICTION NOVEL
Qual è il bivio?

N.L.: In questo caso io non mi sono inventato niente. Ogni cosa che racconto ha pezze d’appoggio molto solide, che sono gli atti processuali o le interviste ai protagonisti del caso. Mi ero dato alcune regole.
La prima era che, qualunque cosa si raccontasse, ci dovesse essere una documentazione per attestarla; la seconda è la mia capacità emotiva di entrare nei personaggi. Dovevo sentire i vari personaggi di cui parlavo.
Quando ci sono fatti che non posso documentare, o quando l’immedesimazione viene meno, lì ho smesso di raccontare e, infatti, lo dico anche al lettore: “Guarda io riesco ad arrivare fin qua, non sono più bravo di così, da qui in poi se vuoi continua tu”.
Ma a che serve allora? Uno si potrebbe chiedere: “Non potevi scrivere un saggio?”. A che serve a quel punto utilizzare tutti gli strumenti della letteratura, tranne l’invenzione? C’è la costruzione drammaturgica, ci sono i dialoghi, c’è un certo modo di organizzare il linguaggio e la retorica e così via…
A che serve questo? A provare a sentire l’aria in maniera diversa; a sentire l’emozione, le sensazioni in maniera diversa e provare in qualche modo a restituirle. Un po’ come alcuni scrittori e poeti dell’antichità che non erano scrittori ma piuttosto ri-scrittori, restituivano un’esperienza reale. Le Bucoliche di Virgilio sono esattamente questo.
Ma persino l’Epica non è altro se non il racconto di una storia, della guerra di Troia: la si ri-racconta, la raccontano molte generazioni, passano dei secoli e poi c’è qualcuno che la codifica e diventa l’Iliade.
Questo però non toglie che ci sia bisogno di letteratura di finzione: noi abbiamo bisogno di Se questo è un uomo, ma abbiamo bisogno anche del La metamorfosi di Kafka; abbiamo bisogno di entrambe le cose perché abbiamo bisogno di utilizzare la finzione per mettere alla realtà una maschera in modo tale che dietro di essa, si possa dire una verità che altrimenti non si pronuncerebbe.

Castro projects, Artist talk: Rebecca Moccia in conversation with Nicola Lagioia, February 2021.

VOCI E RITUALI

Rebecca Moccia: Ne La città dei vivi dove non “arrivi” affidi la parola a una sorta di coro. Questo coro è composto da voci di familiari, di conoscenti, di persone che si sono trovate tangenti a Prato e a Foffo nei giorni in cui si è consumato il delitto, ma anche voci di interrogatori o voci di giornali o di social media che danno questa sensazione che qualcosa stia succedendo o che stia per succedere in maniera imminente.
Questo coro entra nella vicenda e sembra cambiare anche l’esperienza degli stessi protagonisti.

N.L.: Effettivamente è un coro inattendibile; è molto diverso rispetto alla tradizione a cui noi riconosciamo la parola “coro” perché, mentre il coro delle tragedie greche dava l’interpretazione autentica di quello che stava succedendo – il coro dice la verità –qui è un coro che depista e al tempo stesso semina indizi.
Perché anche da un narratore inaffidabile puoi ottenere ugualmente qualcosa di vero.
Qui è un coro reale; queste cose sono vere, sono personaggi veri ed è importante per me restituire le complessità, una polifonia, perché la vita è un po’ così.
Una volta un uomo di chiesa mi sorprese dicendo: “Chiediti perché i vangeli, almeno quelli sinottici, che fanno parte della tradizione cristiana, sono quattro e non uno; sono quattro e tu hai quattro versioni dello stesso fatto…vedi come è molto più polifonica, più instabile, più inaffidabile” –più letterale aggiungevo io – “rispetto a che se fossero una sola voce”. Infatti sono quattro voci e non dicono neanche tutte e quattro la stessa cosa.
In realtà questo coro ha anche una funzione, secondo me, “rituale”; è come se io convocassi tante persone per creare un controcanto al canto di morte che promana dall’uccisione di Luca Varani.
Noi manchiamo di occasioni rituali, ne sono rimaste poche, ma sono fondamentali.
Le tre famiglie che sono state travolte da questa tragedia sono rimaste sole a scontarla, con un rischio di implosione molto alto. Se invece ci fossero delle pratiche collettive rituali di contenimento dei traumi –come gli atti di giustizia riparativa di cui parlo anche nel libro – forse si riuscirebbe a superare alcuni momenti difficilissimi della vita in un altro modo.
Pensiamo solo ai funerali: durante il Covid non abbiamo potuto celebrare i funerali. Se non si riesce a celebrare un funerale di una persona che è morta l’elaborazione del lutto non può neanche cominciare, perché è come se quella persona rimanesse simbolicamente in una specie di limbo da cui non è possibile scacciarla, fino a quando non avviene quel rituale. Solo una comunità, attraverso un rituale, può provare a contenere ciò che altrimenti sarebbe incontenibile perché va fuori dagli argini della normale gestione della vita. Forse la letteratura un po’ può provare –questo tipo di letteratura almeno – a svolgere questo ruolo di stampella.

ROMA. L’ETERNA SMOBILITAZIONE

R.M.: Ne La Città dei vivi Roma viene trattata come co-protagonista del romanzo tanto che, arrivati alla fine, non si riesce di fatto a staccare la città da quello che vi è accaduto. Penso al fallimento, al grottesco, alla rimozione che caratterizzano l’agire sia di Foffo che di Prato, ma che sono in realtà il modo di essere di un’intera città.

N.L.: Roma informa, plasma determinati tipi di caratteri, dei tipi umani, come Foffo e Prato, come Alex Tiburtina; questi personaggi sono tipici romani. Modella i sentimenti, modella gli atteggiamenti; è una città molto complessa, piena di contraddizioni, di opposti: è una città al tempo stesso invivibile e traboccante di vita; una città in cui puoi venire travolto da un senso di libertà inebriante ma che poi diventa subito una libertà tossica perché si trasforma in libertà dai tuoi doveri nei confronti di una comunità.
È una città dove il cinismo è una delle monete correnti; una città che da alcuni anni se la cava abbastanza male; negli ultimi 10-15 anni è come se si stesse lentamente inabissando, crollata su se stessa.
C’è un’espressione che uso nel libro, ovvero che “tutto si consuma a Roma, ma nulla cessa di esistere”, come se ci fosse questo eterno consumarsi che però non si consuma mai definitivamente.
Quindi, da una parte c’è il cinismo, dall’altra, al fondo del cinismo, c’è una certa saggezza o consapevolezza. Come se la città eterna fosse una delle città più consapevoli al mondo che tutto passa, è transitorio e, quindi, nessuno si può troppo montare la testa. È una città in cui è possibile fare esperienza ma è anche una città immobile, ma questo non vuol dire che non possa essere un luogo mitico. Joyce a un certo punto va via da Dublino che considera una città sporca, brutta, cattiva, immobile, provinciale, e così via. La definisce il centro della paralisi, ma proprio per questo diventa il centro di gravità letterario dell’inizio del Novecento, grazie a un libro come l’Ulisse.
Roma, in un certo senso, è il centro della paralisi.

Rebecca Moccia, Rest your Eyes, 2020,  projection, filter, audio monitor, news, news in live streaming. Detail of the installation.

LA SOLITUDINE

R.M.: Il caso Varani trasuda un senso di vendetta, di malattia sociale; qualcosa che ha a che fare con il Male che tu cerchi un po’ di ripercorrere. Ma, in realtà, c’è uno stato di cui avvertivo la presenza sin dall’inizio della lettura che mi ha fatto più paura perché più ordinario, e che poi ho ritrovato descritto in un brano finale del romanzo:

Se tuttavia dovevo indicare, subito dopo l’istinto di sopraffazione, il male che mi sembrava precedere gli altri, l’avrei rintracciato in una particolare solitudine. La solitudine che, tanto più se affollata, ci fa marcire nel nostro ego, e che è tutt’uno con la paura di non essere compresi, di venire feriti, derubati, danneggiati, la paura che ingrassa le nostre sfere invisibili, che ci porta a calcolare nell’angoscia, la paura attraverso cui passa, pervertito, persino il bene che ci sforziamo di fare.

Quando ho letto questo brano ho capito che si trattava della solitudine. Cosa intendi in questo caso per solitudine?

N.L.: Intendevo una solitudine colpevole.
Di solito noi alla solitudine associamo qualcosa di incolpevole: “Poveretto l’hanno lasciato solo; poveretta l’hanno lasciata sola”. Non diciamo mai che molta gente rimane sola anche per narcisismo. Il narcisismo è un ottimo strumento per rimanere soli, per farsi terra bruciata intorno a sé, anche nel caso in cui si tratti di una solitudine molto affollata. Il narcisismo può essere anche una reazione a qualcosa che ti è successo; non è che per forza nasci così – siamo tutti quanti abbastanza immersi nella cultura del narcisismo. Comunque Marco Prato e Manuel Foffo a me sembrano, appunto, colpevolmente soli. Sembra che facciano una grande fatica a distogliersi da se stessi; si guardano in continuazione allo specchio.
Noi ci guardiamo troppo allo specchio, anche quando andiamo nel panico perché ci arriva un commento negativo su Facebook o su Twitter… cos’è quello se non narcisismo?
Si potrebbe benissimo ignorarlo, potresti benissimo fottertene, invece non ce ne fottiamo; diamo moltissimo peso alle aspettative degli altri perché li guardiamo poco gli altri, in realtà.
Marco Prato e Manuel Foffo, ripeto, guardandosi molto allo specchio, pensano molto ai fatti loro.
Manuel Foffo in carcere sembra quasi più preoccupato che gli altri lo considerino omosessuale che non del fatto che sia un assassino; Marco Prato, quando il padre va a trovarlo in carcere, una delle prime cose che gli chiede è: “Ma che dicono sul mio profilo Facebook?”.
Se ti guardi in continuazione allo specchio non saprai mai chi sei: perché noi non ci conosciamo attraverso noi stessi; ci conosciamo attraverso gli altri. Io riconosco in un altro una parte di me, gli riconosco una patente di umanità e, se gliela riconosco, difficilmente lo ammazzerò come loro ammazzano Luca Varani; vedo, rispetto all’altro, tutta una serie di differenze e, differenziandomi, comincio a capire, per quello che è possibile, chi sono.
Ma devo riconoscergliela quell’alterità all’altro per differenziarmene, altrimenti mi chiudo in una specie di solitudine, appunto, narcisista, retorica. Chiaramente mi fa male, non è che uno che sta solo non soffre, ma con un gesto di umiltà potrebbe essere un po’ meno solo.  Loro questo gesto di umiltà ho l’impressione proprio che non riescano a farlo; con solitudine mi riferivo a questo. Ma è una situazione che, in forma però più blanda, ritroviamo anche nelle nostre vite.

R.M.: Da autore ti sei “tirato fuori” dal romanzo, ma, allo stesso tempo, c’è anche molta nota biografica all’interno del testo. Se da una parte c’è il tuo rapporto con Roma, dall’altra esiste anche una sorta di tentativo di entrare in prossimità, non solo di identificarsi con la vittima, ma di cercare di capire anche l’assassino.
Qual’è questa prossimità che percepisci?

N.L.: La prossimità è sempre duplice in letteratura perché è la prossimità dello scrittore e la prossimità del lettore. Quando ci si immerge in un libro ci si avvicina pericolosamente a tutti quanti i personaggi. Quando noi leggiamo Otello siamo molto vicini anche a Jago, siamo dietro le quinte con Jago, addirittura, all’insaputa di Otello; quindi siamo quasi complici di Jago, a danno del povero Otello. Facciamo un grande esercizio di prossimità.
E poi, per quanto riguarda gli assassini, sono al tempo stesso colpevoli ed esseri umani, cioè non sono dei mostri.
Il fatto che non siano dei mostri non vuol dire che non siano colpevoli, non vuol dire che la loro colpa sia ridotta, anzi, a maggior ragione: sono umani, hanno il libero arbitrio, quindi sono colpevoli.
Solo che noi tendiamo a identificare il colpevole con il mostro perché, se è un mostro – e quindi non ha una testa, due gambe, due braccia come noi – non potremmo mai essere colpevoli in vita nostra, perché siamo due razze diverse, due specie diverse, veniamo da pianeti diversi.
Non sto dicendo che noi abbiamo la probabilità di diventare un giorno assassini perché, anche dal punto di vista statistico, è alquanto improbabile; però, invece, la probabilità che saremo colpevoli di qualcosa prima o poi è pressoché scontata.
Solo che la cosiddetta vocazione vittimistica che è in noi, il nostro volerci sentire in credito per stare meglio, non viene compensata da una vocazione, invece, colpevolista.
Al contrario, quanto più non ci auto-rappresentiamo come possibili creature in grado di sbagliare tanto più ci troveremo a sbagliare e a fare del male agli altri senza neanche rendercene conto.
Noi facciamo male agli altri semplicemente perché siamo come siamo fatti: siamo creature imperfette, incoerenti, contraddittorie, spaventate, violente, frustrate e anche capaci di bei gesti o grandi gesti, addirittura, ma anche di gesti meschini. Non riconoscere la possibilità della meschinità ci amputa di qualcosa; ci toglie qualcosa e la letteratura svolge questa funzione, ci ricorda di che cosa siamo fatti.
Quando noi empatizziamo con un personaggio che fa qualcosa di tremendo non vuol dire che anche noi vogliamo fare qualcosa di tremendo o che siamo in grado di fare qualcosa di tremendo, ma che abbiamo qualcosa in comune: una determinata pulsione, un sentimento che proviamo entrambi, sia noi che quel determinato personaggio, a cui poi non seguono, per fortuna, le stesse rovinose conseguenze; però ci ritroviamo fino a un certo punto nella stessa barca.
Questo è l’insegnamento morale della letteratura, che oggi viene molto guardato con sospetto perché c’è una polarizzazione assoluta: noi tendiamo, da persone molte più rozze rispetto a come potremmo essere, a dividere il mondo in buoni e cattivi e – guarda caso – noi siamo sempre dalla parte dei buoni e non ci sono mai le sfumature; il mondo è molto più ricco e complesso di così.

R.M.: Una domanda un po’ pretestuosa: mi chiedo se in questa solitudine che genera una catena che arriva al Male, ti sei in qualche modo identificato e, qualora fosse così, se questo può essere riconducibile a una condizione generale, o invece alla tua situazione particolare, cioè di autore o, più in generale, di lavoratore cognitivo, culturale in cui oltre a un’idea di pressione sociale e delle cose di cui abbiamo parlato, si aggiunge il lavorare in un ambito in cui c’è una mancanza di referenza tale che sembra quasi di fare un lavoro “astratto”.

N.L.: Il lavoro di scrittore è un lavoro in solitudine; è un lavoro in cui devi essere disposto a stare alcuni anni chiuso in una stanza quattro, cinque ore al giorno, da solo, davanti a un computer.
Ma la questione della solitudine è un po’ a doppio taglio perché ho l’impressione che viviamo in un mondo che produce una solitudine attraverso una specie di sovraffollamento e di sovrabbondanza di esperienze sociali e che, quindi ci lasci molto privi, invece, di quella intimità con gli altri esseri umani che invece è il vero antidoto alla solitudine. Trovo che l’eccesso di socialità procuri molta solitudine; il fatto invece di scendere in intimità, in avventura, con altre persone a cui vuoi bene è una cosa che invece il mondo iper-sociale in cui viviamo rende difficile.
Per sconfiggere la solitudine bisognerebbe ritrovare un po’ di intimità con le persone.
Per dare un’immagine, visto che si parla d’arte: mi hanno raccontato di un’opera d’arte che consisteva in una montagnetta di bigliettini da visita, che erano i biglietti da visita che avevano consentito all’artista di arrivare a poter esporre nel museo in cui era collocata. Ecco, quest’opera per me è un monumento alla solitudine.

Nicola Lagioia (Bari, 1973) is an Italian writer, director of the International Book Fair in Turin and radio presenter of Pagina 3, the cultural press review of Rai Radio 3. He directed nichel, the Italian literature series of minimum fax, until 2017. In addition to having published short stories in various anthologies, with minimum fax he published Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001), with Einaudi Occidente per principianti (2004), Riportando tutto a casa (2011) and La ferocia (2014), with which he won the 2015 Strega Prize.
His latest novel, La città dei vivi, was released in October 2020.
Rebecca Moccia (Naples, 1992) is an Italian multidisciplinary artist. Her works have been exhibited in solo and group exhibitions, among the recent ones: Laboratorio Aperto, XXIV CSAV, Fondazione Antonio Ratti 2018; Cuore, Toast Project Space 2019; Da qui tutto bene, Museo Novecento Firenze 2019; Back to London, Mazzoleni London 2020; There is no time to enjoy the sun, Fondazione Morra Greco 2021.
In 2020 she was artist fellow at Castro projects and among the winning artists of Cantica21, a proect promoted by the Ministry of Foreign Affairs and International Cooperation and by MIBAC to promote Italian contemporary art in the world.
Rebecca Moccia is among the founding members of AWI – Art Workers Italia.