Against Our Vanishing*
Something about Greer Lankton
Written in 2021, this text was born following the urgency to study and discover more about Greer Lankton, a visual artist little known in Italy.
[This text is in Italian]
Greer Lankton, It’s all about ME, not you, 1996, permanent installation at Mattress Factory, Pittsburgh.
Courtesy of Mattress Factory, Pittsburgh
Non ho visto New York negli anni Settanta e Ottanta, anche se mi sarebbe piaciuto. Il CBGB, la Bowery, il Lower East Side. Aristocratica e scostumata, modaiola e underground, una concentrazione di accaniti impresari e schiere di dropout alla ricerca di qualcosa di inafferrabile. La controcultura probabilmente aveva iniziato e concluso il suo inesorabile abbandono delle atmosfere pacifiche della Woodstock del Flower Power per guadagnare una virulenza patologica con il nichilismo a farla da padrone. Una nuova era, naturalmente figlia di quella precedente ma non per questo meno motivata a fagocitarla per ridurla in pezzi, si avviava a mescolare insieme un’estetica punk – nelle attitudini, nella ricerca, nella tensione violenta all’identificazione del sé all’insegna del solipsismo – e un marcato interesse per il diverso. Un mash-up condito dalla politica autoritaria di Nixon prima, di Carter poi, e infine di Reagan. È nel 1979 che Greer Lankton arriva a New York, iniziando la sua parabola artistica e biografica proprio nel Lower East Side, dopo il suo intervento di riassegnazione chirurgica del sesso.
Non ricordo esattamente quando mi sono imbattuta nella figura di Greer Lankton. Probabilmente si è trattato di uno di quei momenti di scroll compulsivo, a metà tra la noia e la ricerca di iper-collegamenti farraginosi da un interesse all’altro. Fragile e vitale, fautrice di una sensibilità che trascende la distinzione netta tra arte e vita, Greer Lankton mi è subito sembrata una delle figure più perturbanti incontrate di recente nei vagheggiamenti online. Ho provato un’attrazione istintiva, estemporanea, motivata certamente dalla fascinazione per la sua storia personale e per un approccio viscerale all’arte quale conseguente estensione di un percorso biografico accidentato.
Che l’una preceda l’altra, ovvero che sia possibile stabilire una linea di filiazione diretta dalla vita all’arte, non è neppure presto detto. Ciò che diventa straordinariamente interessante è la capacità di non ridurre l’una all’altra, né di sottolineare il carattere episodico di una simile modalità di approccio al linguaggio visivo: al di là dei formalismi, qui tutto è vita, e tutto è arte.
Greer Lankton with one of her works, 1996
Photo by Annie O’Neill
Courtesy the Mattress Factory, Pittsburgh
Amica di Peter Hujar, David Wojnarowicz, David Armstrong, musa e sodale di Nan Goldin – che la fotografa in diverse occasioni, ritraendola, per esempio, in The Other Side; che condivide con lei un appartamento e la rende una dei protagonisti di I’ll Be Your Mirror, il docufilm uscito nel 1995 – Lankton ha attraversato la scena newyorkese degli anni Ottanta in modo del tutto personale e, direi, isolato: si discosta nettamente dall’estetica aggressiva che sembra primeggiare nel linguaggio pittorico e scultoreo di quegli anni come diretta emanazione di un mercato che corre velocemente, prodotto dalle scelte di lifestyle di un’intera generazione. Difficilmente inquadrabile, il suo interesse si situa a metà strada tra arte e artigianato, dedicando gran parte della sua breve vita alla realizzazione di “bambole”, molte delle quali in scala quasi reale, il più delle volte contestualizzate all’interno di veri e propri environment. Fotografia, disegno, scultura dipinta diventano allora i media privilegiati attraverso cui Lankton è in grado di attivare un’esperienza estetica data dalla continuità tra vedere e sentire; una pulsante e vibratile esperienza che batte all’unisono con quella dell’artista.
Nata da un ministro presbiteriano a Flint, nel Michigan, Greer Lankton inizia sin da piccola a modellare le prime bambole impiegando una varietà di materiali non tradizionali – nella prima retrospettiva newyorkese, LOVE ME (2014), curata alla PARTICIPANT INC. da Lia Gangitano, in collaborazione con il G.L.A.M. (Greer Lankton Archives Museum) – sono stati esposti vari ephemera, tra cui una marionetta che Lankton ha realizzato insieme a suo padre all’età di sette anni; dopo aver completato i propri studi presso l’Art Institute di Chicago (1975-1978), a 21 anni si trasferisce a New York e ottiene un B.F.A. in Scultura al Pratt Institute (1978-1981). È nel 1981 che alcuni suoi lavori vengono inclusi nella epocale collettiva New York/New Wave al PS1, curata da Diego Cortez, insieme ad artisti che lì a breve sarebbero stati salutati come delle vere e proprie celebrità: Keith Haring, Jean-Michel Basquiat – che all’epoca compariva ancora sotto il nome di SAMO – Nan Goldin, Larry Clark. In questa occasione Lankton espone alcune figure, scarne e orrorifiche, costrette all’interno di gabbie metalliche.
Come racconta Nan Goldin: “L’ho incontrata alla fine degli anni Settanta, quando è arrivata a New York da Chicago e, nonostante fosse pressoché ventenne, aveva già creato alcuni lavori molto significativi come un’enorme bambola incinta, con attributi di ermafrodito, realizzata dopo aver sognato di partorire se stessa – un sogno che potremmo definire come un presagio della sua intera vita e del suo lavoro”.
Sissy and Cherry in front of Einsteins, NYC, 1988
Photo by Paul Monroe
Dal 1983 al 1985 Lankton espone alla Civilian Warfare di Alan Barrows e Dean Savard, con tre mostre personali e quattro collettive che la rendono nota all’interno della scena creativa dell’East Village degli anni Ottanta. Dal 1986 al 1990 presenta le sue sculture all’interno della boutique Einsteins di Paul Monroe, al quale nel 1987 si unirà in matrimonio. Monroe, che dopo la morte dell’artista ha fondato il G.L.A.M., racconta dei difficili esordi di Lankton e dello scarso interesse collezionistico inizialmente suscitato dal suo lavoro; scarso interesse che l’ha incoraggiata, anche dietro suggerimento di alcuni galleristi, a fotografare le proprie bambole – creando spesso dei veri e propri set di posa – per poter commerciare più facilmente gli scatti e continuare così a produrre le sculture. È nel 1995, anno in cui vengono presentate alcune sue opere alla Whitney Biennial curata da Klaus Kertess e alla Biennale di Venezia di Jean Clair intitolata Identità e alterità: figure del corpo, 1895-1995, che Lankton inizia a pianificare la sua ultima personale It’s All About ME, Not You’ (1996), divenuta poi un’installazione permanente alla Mattress Factory di Pittsburgh, che attualmente dispone di più di 14.000 oggetti, tra opere, bambole, ephemera e ritagli di giornale, che sta indicizzando e digitalizzando con l’obiettivo di renderli completamente fruibili online entro il 2021. In questa occasione Lankton ricostruisce minuziosamente gli interni del proprio monolocale di Chicago – dove nel frattempo si trasferisce a seguito del divorzio con Monroe e per seguire dei programmi di disintossicazione – con pareti turchesi bordate di rosa, ricoperte di finte nicchie e santuari dedicati a Patty Smith, Candy Darling, Gesù e a se stessa. Si spegne nel 1996 a causa di una overdose, a soli 38 anni, lungo la scia di un momento tanto elettrizzante quanto drammatico, durante il decennio in cui l’Aids continua a mietere vittime, molte delle quali suoi collezionisti e compagni di strada.
Una cosa va senz’altro detta: un certo riconoscimento le viene accordato sin da subito, soprattutto da parte della cerchia artistica a lei più vicina e affine per continuità di intenti. Non sorprende, ad esempio, che Iggy Pop, all’epoca uno degli inquilini della famigerata Christodora House, sia stato uno dei tanti a riconoscere a Greer Lankton non soltanto delle specificità espressive, ma anche e soprattutto una peculiare sensibilità nel declinare in modo del tutto personale e non episodico una certa Weltanschauung – per inciso, a Iggy Pop appartiene uno dei lavori più noti di Lankton, Princess Pamela (1980-1983), una bambola a grandezza naturale ottenuta impiegando un vestito che alle volte Lankton indossava per uscire.
Greer Lankton, It’s all about ME, not you, 1996, permanent installation at Mattress Factory, Pittsburgh.
Courtesy of Mattress Factory, Pittsburgh
Raffinata, amante della moda, interprete sensibile di un’estetica che racconta di un’epoca e delle sue contraddizioni, Lankton ha dedicato, in maniera totalizzante, tutta la sua breve esistenza a una declinazione, autobiografica e non, della corporeità come estensione del vissuto e deliberata ricerca di sé. Le bambole meticolosamente costruite appaiono così come un’estroiezione e una diretta emanazione del suo personale modo d’intendere non soltanto la soggettività, ma anche l’alterità e il mondo circostante. Edie Sedgwick, Candy Darling, Peggy Moffitt, Divine, Missy/Sissy, Princess Pamela, Rachel, Diana Vreeland sono i nomi e le fisionomie, spesso in trasformazione, di un mondo in cui sé e altro si scontrano con la componente orrorifica, goliardica, umoristica, glamour e destabilizzante di una realtà tanto vera quanto cruda. Superando di gran lunga il confine non soltanto tra arte e vita, ma tra alto e basso, arte popolare e belle arti, Greer Lankton produce delle sculture ingegnose la cui anima – ricavata da bottiglie di soda, ombrelli rotti, collant – è rivestita con attenzione per essere sapientemente dipinta da diversi strati di vernice e arricchita di dettagli – occhi di vetro acquistati dal tassidermista, abiti, bijoux e un peculiare sistema di messa in forma che consente loro di assumere delle pose. I corpi delle bambole recano impressi i segni dell’esistenza – emaciati, malati, grassi, ridondanti, sacrificati – così come, aspetto questo di straordinaria vivezza, i segni impressi da una metamorfosi che spesso le trasforma, rendendole schiave del passaggio inesorabile del tempo che scandisce le nostre vite. Lankton talvolta rimodella le sue bambole, che sembrano perdere o aumentare di peso, apparire malate, essersi sottoposte a un lifting facciale o a un intervento di riassegnazione – “the operation” come lei era solita definirla. Per Lankton il manufatto artistico, la scultura, hanno davvero perso qualsiasi elemento auratico, per inscriversi completamente nella storia; una microstoria personale che batte all’unisono insieme a quella di altri miliardi di persone. L’oggettualità fattiva dell’opera – in particolare per le bambole – decade; esse nascono-crescono-evolvono seguendo il percorso vitale dell’artista: come dei surrogati di soggettività, esse tendono a innescare una legittima prosecuzione dell’esperienza eidetica ed empirica; sono la propagazione diretta di una memoria, visiva e intellettiva, che esiste insieme all’opera. Sissy (1979-1996), ad esempio, una delle bambole preferite di Lankton e la sua figura più autobiografica, è stata continuamente rielaborata dall’artista: in una fotografia vediamo Sissy seduta fuori da Einsteins; in un’altra posa fuori da una stazione della metropolitana, senza parrucca, con i pantaloni abbassati, il pene scoperto; in un’altra ancora siede in una camera da letto circondata da altre bambole. Sissy è un alter ego, Lankton ne documenta addirittura l’intervento di riassegnazione, adducendo una proiezione chiaramente personale che finisce con l’enfatizzare la componente sì traumatica ma, al contempo, performativa di rielaborazione del vissuto ed estroiezione dei suoi contenuti di memoria.
L’ossessiva centralità del corpo – mai caricaturale ma sempre attentamente esposto – costituisce senza dubbio l’altra metà di un discorso all’interno del quale la soggettività viene personificata e impersonata attraverso le fisionomie mutevoli di queste dolls. Quasi fossero delle ceroplastiche votive, le loro fisicità straziate oltrepassano la mera notazione autobiografica per divenire le matrici di un più ampio discorso di senso sulla corporeità e le sue molteplici, talvolta sofferte, estensioni.