Legarsi alla montagna – Maria Lai
A creative text produced during a workshop at Mambo in Bologna (2020) as a result of a writing exercise intended to relate emotionally to an artwork.
[This text is in Italian]
Piero Berengo Gardin, black and white photograph of Legarsi alla montagna (1981) with handmade interventions by Maria Lai.
Si dice che le persone di bassa statura siano radicate alla terra, abbiano radici profonde e ben amalgamate al magma da cui le origini e la vita provengono. Sento di non trasgredire a questa tradizionale iconografia del corpo minuto in cui mi trovo ad abitare e alla lettura che ne viene proposta e tramandata da sempre. La fissità fluida e morbida nidifica nei miei piedi che instaurano relazioni con la terra che calpesto. E questa spesso mi richiama a folate di vento e suoni metallici di sonagli. Allora mi pongo in atteggiamento di ascolto, spalanco le narici, respiro a braccia alate, addomestico l’irrequietezza che mi porta ad essere disobbediente e frenetica nelle volontà. Come nenia notturna, come preghiera laica improvvisata, mi ripeto:
Guarda continuamente, Maria.
Tutto è interessante attorno a te: guarda più da vicino.
Osserva a lungo.
Cattura le storie che giocano a nascondino attorno a te.
Fai posto a ciò che non è determinato.
Osserva il movimento, dentro e fuori di te.
Scopri la fonte originaria delle cose, cosa le ha bagnate per la prima volta.
Instaura un dialogo personale con il tuo ambiente: parlagli, parlati.
Il mio cuore randagio, naufrago, affamato di oceani e tenerezze sospese, è tornato a casa, quell’8 settembre 1981, a conoscere ferite, a sanare memorie interrotte, a raschiare il fondo obliato di Ulassai pieno di rancori, ansie, minacce e indifferenza.
L’arsura del linguaggio percepito come straniero, le piazze e i cordoni di ciottolami in salita, gli sguardi distratti di vedove, pastori e contadini ingialliti dalla semina. Tutto amplificava come cerchi concentrici una fragilità silente, restituibile con l’immagine di un mollusco racchiuso in una conchiglia. Ecco, tutto si manifestava nella sua vulnerabilità molle che occorreva raccogliere e proteggere.
Chiavistelli serrati, imposte chiuse a riccio a contenere il buio del privato, le parole a quel tempo non legavano, i vasi non comunicavano. Mi accorsi che l’appartenenza si faceva pallida e inverosimile.
Il paesone incastonato tra i monti, simboli di sostentamento e morte, tana di fantasmici dolori e di antidoti leggendari doveva risvegliarsi, annodarsi alla memoria faticosa della comunità. E quest’ultima alla sua montagna franosa, che abbraccia i contrari e ne fa incontri pieni di possibilità.
Ho dietro di me millenni di silenzi, di tentativi di poesia, di pani delle feste, di fili di telaio.
La salvezza è nei palmi delle mani che per troppo tempo non hanno visto la luce del contatto, ma che serbano ancora la gestualità antica di tessere, di retificare, di riparare.
Risignificare i movimenti, portarne in superficie le potenzialità anestetizzate, praticare la ritualità della collettività e celebrarla con una festa: l’arte.
Bastava poco per ridisegnare relazioni vecchie e nuove fra bambini, donne, pastori e anziani.
Bastava solo un colore e la volontà di legarsi all’altro.
Lasciai a ciascuno la scelta di come legarsi al proprio vicino. E così dove non c’era amicizia il nastro passava teso e dritto nel rispetto delle parti, dove l’amicizia c’era invece si faceva un nodo simbolico. Dove c’era un legame d’amore veniva fatto un fiocco e al nastro legati anche dei pani tipici detti su pani pintau.
Il blu è la luce che si è persa, che non ci tocca, che non percorre tutta la distanza. Per molti anni mi ha commosso il colore blu al limite estremo di ciò che si vede: quel colore degli orizzonti, delle catene montuose remote, di tutto ciò che è lontano. Il colore di quella distanza è il colore di un’emozione, della solitudine e del desiderio, il colore del di là visto da qui. Il colore di dove non sei, il colore di dove non si può mai andare perché il blu non è nel luogo lontano chilometri che sta all’orizzonte ma è nella distanza atmosferica tra te e le montagne.
Chiudo gli occhi, il vuoto si ritrae, il miracolo accade.
Groviglio di tendini blu serpeggia tra le dita rugose, tra pali di luce e tubature a vista in via Cairoli.
Scia che si staglia tra i vicoli di un borgo arroccato, confondendosi tra panni stesi ad asciugare e cavi elettrici sfreccianti su per la funivia. Il cielo è sceso giù tra i ciottoli e i piedi scalzi dei bambini in cortile. E richiama con la sua favola a intrecciarsi alla rocciosità del panorama, alla materia brulicante che abbraccia tetti, cupole e finestre. Guarda su, siamo tutti fili dello stesso ordito che districa i conflitti, che cura gli onori feriti, che ci lega alla madre montagna. Il perdono avvolge, si annida operoso, unendo lasciti, angoli e segreti impolverati. E piccoli ragni incattiviti si trasformano in pacifica processione di intenti corali e condivisi, in cui lo spirito si fa labirintico e iperconnesso, in cui la vetta raccoglie e rilancia nell’etere i respiri di tutti.