“L’ultima rivoluzione nell’arte”
The following is an excerpt from a long conversation between Anna Cestelli Guidi and Harald Szeemann which took place in Maggia, Switzerland, on April 20, 1996. Anna Cestelli Guidi was doing researches for her thesis which were partly published in her book La «Documenta» di Kassel. Percorsi dell’arte contemporanea (Costa & Nolan, 1997) and this long interview was only trascribed and had still a sketchy appearance before appearing revised and edited here.
[This interview is in Italian]
Monte Verità[1]
Harald Szeemann:
Non volendo più diventare direttore di museo, ho deciso di rimanere da solo ma ho dovuto inventare delle mostre che gli altri non potevano fare.
Conoscevo già il Monte Verità dal 1964 e ho capito che prima ancora di fare qualcosa di diverso su questa collina, era necessario prima di tutto salvarne la storia perché è unica al mondo.
Ora il Cantone organizza questi seminari, molto noiosi[2]. La collina si è sempre nutrita di linguaggi non verbali, come l’arte, la danza, la musica. Ora parlano sempre, tutta la settimana. Poi si deve pubblicare, tradurre. Non c’è più questa sensualità diretta. Ma almeno ho potuto fare questi tre musei che sono rimasti dopo la ristrutturazione. Prima abbiamo fatto alcune mostre: quella del Monte Verità, poi anche sulle isole di Brissago, nel paese, nel museo comunale, nel liceo, nel vecchio teatro – ex teatro di Ascona che ora hanno distrutto. Ascona è diventata molto strana: non c’è più neanche la macelleria; sono tutte boutique, che falliscono una dopo l’altra; hanno anche abbattuto quattro anni fa gli ultimi grandi alberi.
Anna Cestelli Guidi: Strano luogo, il Monte Verità.
H.S.: Ha anche contribuito a farne un paese, era sempre il Comune più ricco della Svizzera. Un milione di pernottamenti, incredibile no? Un paese di 7000 abitanti. Adesso non so, con la crisi del turismo dicono che si deve ancora fare qualcosa.
Anche ad Ascona i leghisti hanno impedito di continuare a fare mostre. Quando non era più possibile organizzarne sul Monte Verità abbiamo realizzato con il museo comunale la mostra di Mario Merz che è svizzero. Poi Toroni – che della regione è l’unico ticinese internazionale – abbiamo riscoperto lo scalpellino scultore del Morini e poi alla fine abbiamo fatto Leib che è proprio nello spirito del Monte Verità, no? Queste sculture di polline, di latte. Ma poi hanno detto che non vogliono più mostre in municipio, vedremo.
A.C.G.: Magari uno potesse avere questo tipo di mostre a Roma!
H.Z.: Hanno sempre detto che il Monte Verità non ha nulla a che vedere con l’identità ticinese ma ho sempre risposto che invece le origini sono proprio ticinesi. Già Alfredo Pioda voleva fare un monastero teosofico sul Monte Verità che poi non ha fatto perché c’era la rivoluzione liberale; lui era la grande potenza spirituale in grado di ridare armonia alla storia di questo paese dopo la rivoluzione. Il gruppo dei fondatori del Monte Verità andò proprio da lui. Senza questo appoggio non ci sarebbero riusciti. Ho inoltre trovato documenti sulla società teosofica a Locarno in cui non c’è neanche un nome tedesco, sono solo ticinesi. Dunque ci sono ramificazioni che loro non vogliono riconoscere. Poi ho detto: “Se non volete una specie di PAC sul Monte Verità, ma dove le mostriamo le nuove cose? Se non facciamo un lavoro di prospettiva fra vent’anni i vostri musei non avranno programma, perché ora vivono sulla storia del Monte Verità.” Sono vent’anni che mi batto per questa cosa ma allo stesso tempo non voglio impormi. Faccio sempre così, se non c’è un ticinese che vuole la cosa io non mi muovo. Devo comportarmi un po’ come un artista al quale si chiede se vuole esporre o meno. Puoi sempre rispondere di sì o di no.
A.C.G.: Perché così si può lavorare insieme, anche lei ha un interlocutore.
H.S.: Sì, perché io non voglio apparire come un direttore o simili. Non ho voglia di essere sempre in questi comitati. Voglio fare mostre, il resto non mi interessa.
A.C.G.: Si nota anche dalla scelta di essere qui e di lavorare come indipendente.
H.S.: Ma io sono qui per amore. C’era la Ingeborg[3]. Altrimenti potrei essere, che ne so, a New York.
Prime documenta e Kunsthalle di Berna
H.S.: La prima edizione di documenta era il contatto dopo mille anni di impero germanico. Era l’idea di Arnold Bode di usare i soldi dedicati alla grande mostra di orticultura a Kassel nel 1955 invece che per decorare i giardini con le consuete sculture, di riconnettere la Germania all’arte internazionale, di informare su tutto quello che Hitler aveva eliminato. Questa è, dunque, la nascita di documenta a Kassel. Inoltre Kassel era davvero stata distrutta con i bombardamenti del 1945 per cui aveva questi immensi spazi, per metà ancora distrutti, in parte un po’ restaurati: Fridericianum, Nuova Galleria, il Parco, l’Orangerie, etc. E allora Bode ha cominciato con documenta.
La seconda edizione di documenta già aveva creato il contatto con la pittura americana, con l’espressionismo astratto mentre la terza, del 1964, l’attualità con l’arte cinetica mentre la quarta sulla Pop Art e Minimal.
[documenta aveva un consiglio direttivo composto da 24 membri che erano suddivisi in sottocategorie per generi come “pittura”, “scultura”, “ambiente”, etc.; nel 1968 il giovane direttore del Stedelijk Van Abbemuseum Eindhoven, che è stato nominato capo del comitato di pittura dopo la morte di due membri del consiglio, è emerso insieme a Bode come la figura decisiva a capo della mostra di quell’anno].
Chiesero anche a me ma io avevo la Kunsthalle di Berna che per me era molto più importante. Avevo ragione, altrimenti avrei perso l’opportunità di realizzare nel 1969 When Attitudes Become Form. La documenta del 1968 aveva completamente mancato l’occasione. Gli artisti erano lì, pronti, ma loro hanno mancato questa rivoluzione nell’arte.
Io avevo molte difficoltà a Berna con la Società dei pittori, scultori e architetti che aveva il 51% delle azioni della Kunsthalle dopo che l’ho imballata o Christo ha imballato la Kunsthalle di Berna su mio invito (era il primo edificio pubblico imballato) o quando ho fatto una mostra sulla fantascienza che alcuni dicevano non avesse nulla a che vedere con l’arte e i musei. Quando poi ho realizzato When Attitudes Become Form la mostra è diventata una cosa storica, politica, scandalistica. Allora mi sono dimesso dalla direzione della Kunsthalle di Berna perché era diventata una guerra, perché tutti i giovani artisti con cui lavoravo non erano ancora inclusi nella Società dei pittori, scultori e architetti… Uno tra i pochi posti al mondo che riceve i sussidi per le mostre ma non per fare When Attitudes Become Form ma la mostra di Natale. E poi la questione economica. Quando ho cominciato i sussidi erano 60.000 franchi svizzeri all’anno: 58 sono andati via tra stipendi, assicurazioni, etc. e io ho dovuto fare mostre con 2.000 franchi. Il mio predecessore era molto ricco per cui se ne fregava mentre io avrò guadagnato giusto 50 di più rispetto all’operaio che lavorava al museo. Eravamo in tre e mezzo: segretaria a mezzo tempo, una cassiera, l’operaio e me. Era così. I trasporti li abbiamo fatti noi. Io trasportavo tutto: Mondrian nella mia macchina, tutto; oggi non ho nemmeno il diritto di toccare le opere con i guanti bianchi. Poi, pian piano, sono arrivati a 200.000 all’anno e una mostra come When Attitudes Become Form potevo farla. Sull’”Espresso” di Parigi si poteva leggere che c’erano solo 4 posti vivi: Stoccolma, Amsterdam, Schmela a Düsseldorf e la Kunsthalle di Berna. Quindi aveva una reputazione da museo molto vivo. Si parlava all’epoca anche di “musée eclaté” e noi non siamo più stati storici dell’arte ma piuttosto animatori e Macher [creatore].
A.C.G.: Sì, lei teorizzava il nuovo ruolo del Macher, del curatore che doveva essere, che era il curatore creativo al fianco degli artisti.
H.S.: Si, poi non c’erano ancora tante pubblicazioni e non c’erano i soldi, no? Per questo ho inventato il giornale, inserendo dentro la pubblicità così copriva le spese della tipografia. Di conseguenza è chiaro che tutti i bibliofili che collezionavano cataloghi si sono opposti ma io ho detto: “Se faccio una mostra voglio la migliore opera di un artista ma allo stesso tempo l’informazione per me deve avere una nuova forma, non si possono sempre fare i soliti cataloghi”. Si deve anche saper dimostrare che il fare una mostra è un processo e anche che il risultato ha una tenuta temporanea, di 100 giorni o un mese o 6 settimane. Naturalmente mi ha molto influenzato Fidel Castro. Sono stato a Cuba e ho visto questa flessibilità.
A.C.G.: Lei è stato anche definito il Che Guevara della corporazione?
H.S.: Sì, sono un pensatore selvaggio. Dunque mi sono dimesso dalla Kunsthalle di Berna e mi sono dichiarato Agenzia per il Lavoro Spirituale all’Estero. Era anche uno statement politico contro questa emarginazione degli stranieri in questo paese tanto ricco.
A.C.G.: Poi Agentur è un’idea mobile, un’agenzia.
H.S.: Agentur perché mi sono dichiarato un’istituzione, no? Un’agenzia. E ho sempre detto anche alla documenta: “Voi prendete l’agenzia e poi è chiaro che potete dire che l’agenzia manda il suo collaboratore Szeemann”, anche se l’agenzia ero io, non c’era nulla da delegare.
Volevo ancora fare Beuys a Berna come ultima mostra e il comitato ha votato negativamente. E allora dopo più niente, no? Però è chiaro che ho lavorato ancora ma non ho più fatto mostre, perché c’era una nuova segretaria che aveva bisogno di me. Poi da Praga dopo la Primavera Cecoslovacca avevo preso Zdenek Felix come assistente per farlo uscire ed è lui che ufficialmente ha fatto le cose; non si può lasciare un posto così da un giorno all’altro. In settembre è finito, non ho più ricevuto soldi, non sapevo più come fare e dopo un mese mi hanno chiamato da Kassel. Chiamarmi da Kassel voleva dire incaricarmi per la prossima documenta, voleva anche dire che i tempi dei comitati, di tutti questi vecchi amici di Bode, era finito, era la fine di quella generazione.
documenta 5
A.C.G.: Fu Bode a chiamarla?
H.S.: È chiaro che ci furono difficoltà. Alla fine della documenta ho fatto una serata. Ho fatto venire da Berna le macchinette per fare la pasta; abbiamo fatto la pasta un giorno intero per invitare tutti questi amici di Kassel per una serata finale e la moglie di Bode è venuta da me e ha detto: “Ma hai messo un po’ nell’angolo Arnold, no?” Ed io ho risposto: “Veramente ho proposto ad Arnold di fare lui la figura di rappresentanza ed io la mostra ma lui non voleva. Inoltre gli mandai gli elenchi con i nomi degli artisti e lui non li conosceva, quindi sono stato obbligato a fare una nuova documenta.” Poi lui è venuto e ha detto a sua moglie: “Sono stato io a farlo venire e dunque, accettando, così era, no?” Mi è stato chiaro che una persona così viva, vivace, fantasiosa, abbia sofferto di fronte a questo giovane tipo che fa tutta la mostra. Per loro, soprattutto, non era comprensibile come mai ne cambiassi il concetto. Venendo da When Attitudes… era inevitabile perché fu un’avventura anche perché facendo una mostra in cui su 69 artisti 30 erano sul posto a lavorare direttamente cambiò anche la posizione del curatore. Per esempio non hanno mai attaccato Beuys per aver messo del grasso ma me per averglielo permesso e dunque cambiava tutto, anche la responsabilità. E allo stesso tempo gli artisti hanno cominciato ad andare sul nostro terreno, hanno preso la forma di presentazione del sé. Dunque è divenuta una simbiosi di cose che prima erano separate. Ma è sempre così, era l’ultima rivoluzione nell’arte. Era sempre così; come Mario Merz ha detto: “Non è più una collaborazione, è un andare assieme.” Con gli artisti. E devo dire che in questo momento di grande libertà erano gli artisti i migliori informatori e se non ho mai voluto entrare nella storia degli stili questa è la motivazione: per me era una storia dell’intensità. La storia dell’arte è una storia dell’intensità.
A.C.G.: A When Attitudes… accade per la prima volta questo andare insieme con gli artisti, giusto?
H.S.: No, in realtà ho sempre fatto così ma quando feci When Attitudes… era anche uno specifico momento storico. Era la prima volta che si faceva una grande manifestazione di questo spirito. Un giornale cattolico in Svizzera ha scritto: “In un certo modo questa mostra ci permette di nuovo di riscoprire lo spirito francescano, perché con i materiali poveri, etc.” E questo era un aspetto; l’altro era che veramente era un’arte di processo e finalmente le rivalità tra artisti che ci sono in ogni mostra collettiva sono divenute un fermento. Per esempio Laurence Weiner è arrivato e ha detto: “Ah, tutti espressionisti, io ora faccio un gesto molto puro.” E con il martello ha tolto questo metro quadrato di muro. Quindi lui, il più concettuale, ha fatto il lavoro più manuale con il risultato che è diventato di nuovo un quadrato. Dicendo che tutti gli altri erano espressionisti. Quindi ha reagito molto bene.
A.C.G.: Richard Serra ha fatto lo Splash?
H.S.: Serra aveva fatto lo Splash Piece, anche il Belt Piece e poi c’erano i tre pezzi in equilibrio instabile. Poi però c’era questa cosa pericolosa, abbiamo dovuto mettere una corda.
A.C.G.: E quello trasformava anche la Kunsthalle come luogo istituzionale e museale; la trasformava in quel momento. Siamo anche in un periodo in cui c’è anche una crisi delle istituzioni.
H.S.: Anche attraverso la rivolta studentesca c’era la discussione sull’etica dell’istituzione, sulla morale. Poi c’erano i tentativi di dare il diritto di successione agli artisti perché in quel comento cominciavano i grandi guadagni delle gallerie private. Anche per questo in catalogo ho scritto di far rompere il triangolo atelier, galleria, museo, collezionista, etc. Ma poi non ci siamo riusciti perché con questa mostra, ad esempio, i prezzi per un Serra sono saliti del 600 per 100.
A.C.G.: Sembra quasi inevitabile.
H.S.: È inevitabile. Ma è per questo che sono rimasto sempre fuori; sapendo che è così almeno quando facciamo una mostra non pensiamo a questa nuova proprietà che si fa ma che riusciamo ancora a fare la poesia nello spazio.
A.C.G.: Ma lei pensa che sia ancora possibile oggi?
H.S.: Si tratta di un desiderio, è come la società ideale. Quando mi chiamarono a Kassel ne rimasi molto sorpreso. C’erano tutte queste persone: Bode, il collezionista, il direttore dell’assicurazione.
A.C.G.: Una struttura.
H.S.: Sì, c’era tutto questo cerchio. Era così che la città non amava questa documenta ma allo stesso tempo ne avevano bisogno perché Kassel senza documenta era una città completamente addormentata. Anche quando presi l’appartamento lì, avevo un architetto sotto di me che ogni volta che mi incontrava diceva che gli ero simpatico ma che era veramente orribile fare questa documenta. Era una città socialista ma erano tutti colonnelli ritirati, pensionati; una città residenziale. Poi non c’era niente; 30 km dopo c’era il muro e anche per andare in treno si doveva sempre cambiare e prendere un treno lento, poi l’autostrada Düsseldorf non era ancora finita. Era davvero una città persa.
A.C.: Ma forse questo era positivo per la documenta?
H.S.: Sì, è chiaro che non si può fare una documenta a Parigi; a Kassel non c’era niente, il deserto, per cui si poteva fare. Poi c’erano questi spazi fantastici.
A.C.G.: E la documenta era già nella visione di Bode la “Mostra dei 100 giorni” come alternativa al museo tradizionale.
H.S.: Sì ma io ora ero reduce da When Attitudes… di cui volevo fare una seconda parte che però non trovava spazio a Berna; un omaggio a tutti gli esponenti di Happening & Fluxus per cui quando a Colonia mi hanno chiesto di fare una mostra ho pensato a loro essendo perfetta come città in quanto ne era il centro con Paik, poi c’era Wuppertal con i primi happening, Beuys, poi Oldenburg…Insomma sembrava il luogo ideale. La realizzazione di Happening & Fluxus[4] ha creato anche scandalo perché all’ultimo momento ho introdotto l’azionismo viennese che all’epoca era davvero nuovo. In una città, come Colonia, dove si stava formando il mercato dell’arte. Appena arrivato tutti i galleristi mi invitavano a cena; dopo aver visto la mostra-scandalo non sono più stato invitato. Ho dormito nel museo come Napoleone.
Per cui ho capito che un’idea del genere per documenta non poteva funzionare. Un’idea basata sull’avvenimento e in cui i 100 giorni divengono 100 giorni di avvenimenti.
Il primo progetto che ho elaborato per documenta era dedicato agli avvenimenti.
A.C.G.: Nella sua prima idea erano anche previste una serie di mostre tematiche parallele a cura di Hofmann?
H.S.: Sì, lui poi era molto contento del primo testo ma poi non aveva molto tempo e avendo visto l’effetto negativo di Happening & Fluxus… Lui faceva oramai mostre tematiche. Si deve sempre ricordare che dopo il ’68 sono usciti tutti questi marxisti che dell’arte ne hanno iniziato a fare una questione sociale piuttosto che estetica. Si vede anche dal catalogo per il quale si è molto discusso se lasciare o meno il testo di Hans Heinz Holz ma poi mi sono detto di lasciarlo così finalmente la si finisce con questi marxisti dell’arte! Perché è evidente che lui non aveva capito nulla. Gli mandai tutte le diapositive delle opere in mostra e lui conclude con Spoerri che non era neanche in mostra. Anche se con Spoerri si era disucsso di realizzare insieme a Motta un’opera dedicata a tutta la storia dell’arte sino alla documenta 5 sotto forma di torte. Ma poi Motta disse che era troppo cara e non si fece. Nella sala dove c’era il Mouse Museum di Claes Oldenburg, Duchamp, Broodthaers, Distel era previsto che Spoerri realizzasse torte dall’Espressionismo Astratto, includendo quindi anche le prime 4 edizioni di documenta sino alla Pop Art e Minimal, poi avrei continuato io con il concettuale, il realismo fotografico e all’ultimo momento ho inventato le Mitologie Individuali. Mi aveva sempre disturbato la dicotomia, il mostrare due stili rivali: Pop e Minimal; Costruttivismo e Realismo; etc.. Essendo contro gli stili mi sono rifiutato. Le Mitologie Individuali mi permettevano di includere anche il geometrico, l’Azionismo Viennese, Paul Thek, Beuys, Serra, etc. L’arte torna a se stessa e questo scioccava molto.
Questo avvenne dopo l’inaugurazione di Happening & Fluxus che creò tanto scalpore. Allora Bazon Brock ha scritto questo testo sulla realtà dell’immagine, dell’immaginato, della non identità. Trovai questo concetto di Brock perfetto perché non sarebbe mai potuto diventare una mostra e i tedeschi, che amano discutere di concetti invece di essere sensuali, hanno discusso per un anno e mezzo su questo concetto di Brock ma io dovevo fare una mostra!
Dopo aver già fatto a Berna le tavolette votive, o aver esposto per primo l’Art Brut nel 1963 per me era naturale dover ora occuparsi dei mondi paralleli di immagini per cui sono entrate dentro la fantascienza, la cultura utopica, la pubblicità, la propaganda politica, etc. Poi mi resi conto che lo “Spiegel” faceva un lavoro fantastico nella prima pagina per cui ho chiesto loro di esporre perché questo era un approccio vero per me: rendere visibili i margini che sono sempre attorno a noi; era come un cammino di iniziazione. Si cominciava con la pubblicità, si passava attraverso le immagini del mondo della fantascienza, poi dalla politica al kitsch, le immagini religiose e poi, attraverso l’arte dei folli, si arrivava al primo piano al realismo fotografico e alla Mitologia Individuale e si finiva sotto il tetto del Fridericianum con La Monte Young dove c’era solo un suono per 100 giorni.
A.C.G.: Sì lei infatti quando alla fine ha detto che l’arte torna a se stessa è rientrato nel museo. LA sua affermazione è stata quasi una rivoluzione.
Inoltre il cambiamento dal primo concetto con gli avvenimenti al Befragung der Realitaet portava anche a cambiare il ruolo dell’artista.
H.S.: Ho fatto venire a Kassel ciascun artista a cui ho spiegato bene tutto, riuscendo ad evitare le rivalità che ci sono sempre tra gli artisti in queste grandi mostre. Tutto è stato discusso con loro e loro mi apprezzavano perché non ho mai nascosto niente. Si deve sempre dare a tutti gli artisti, anche se sono 169, l’impressione che di essere presenti per ciascuno alla stessa maniera.
Capii che dovevo prima creare un nucleo stabile e poi, pian piano, includere un ciclo di avvenimenti per cui invitai Acconci con una performance, Howard Fried, Terry Fox, etc.
A.C.G.: L’idea della Mitologia Individuale l’aveva già da prima?
H.S.: Nel 1963 feci una mostra di Etienne Martin, artista che amavo molto. Lui per me rappresentava l’inizio dell’arte ambientale nel suo prendere non più un corpo, un volume ma la dimora, per cui attorno all’uomo; la scultura è divenuta una piazza e non più un volume. E chiamai quella mostra e la sua maniera di vedere la scultura Mitologia Personale. Ed è il motivo per cui lo invitai nuovamente.
A.C.G.: Eravamo rimasti al secondo concetto, un sistema quasi strutturalista.
H.S.: Sì, era molto hegeliano, i tre passi: l’immagine che è una bugia, l’immagine che è un’interpretazione più l’identità dei due o la non identità.
A.C.G.: Questo all’interno dell’idea di mostra tematica.
H.S.: Sin dall’inizio era tematica. Ho sempre pensato che mostrare 180 artisti che tra loro non hanno niente a che fa rimanere nella vecchia strada della grande manifestazione.
A.C.G.: Lei quindi pochi mesi prima decide che questo era un concetto troppo sistematico e c’era anche stata una protesta da parte di artisti americani.
H.S.: Un anno prima della mostra abbiamo fatto una conferenza stampa in cui Brock ha spiegato il suo sistema e io diedi i nomi degli artisti. Stranamente si discuteva più sul concetto di Brock che sulla lista degli artisti. Ho quindi avuto un ombrellone di teoria sotto il quale potevo fare quello che volevo. Intorno ad aprile abbiamo cominciato anche a decidere chi fa cosa perché ovviamente non potevo fare tutto io per cui si è proposto Jean-Christoph Ammann perché già mi accompagnava come mio tenente perché allor il suo museo di Lucerna era chiuso per restauri e aveva tempo; inoltre lui aveva cominciato al mio museo a Berna. E veniva con me a fare i viaggi. Ad aprile lui prese l’incarico di occuparsi del fotorealismo; poi ho chiesto a Konrad Fischer il Concettuale, a Spoerri l’Art Brut, etc. Ho preso persone che sapevo potevano lavorare in maniera indipendente e la decisione di chi e che cosa è finalmente stata fatta a gennaio del 1972. Proprio in quel periodo eravamo andati in America a visitare tutti gli artisti, poi di nuovo in Europa. Ho viaggiato sino ad aprile perché volevo che rimanesse tutto fresco; se si va a visitare gli artisti troppo presto non va bene. Poi da aprile abbiamo cominciato a lavorare al catalogo e poi ad un certo punto ho capito che dovevo mettere le Mitologie Individuali perché nei testi di Holz e Brock non c’erano.
Gli ultimi otto mesi ho pensato solo alla mostra e non più al concetto essendo solo, essendo io il capo. Non c’era un comitato. E così ho potuto reintrodurre gli happening e per esempio Beuys con il suo ufficio per cento giorni riusciva davvero a realizzare un avvenimento per 100 giorni.
Poi per la prima volta ho introdotto il cinema degli artisti. Polke, Sieverding, Simonds; ho mostrato tutti quei film che in quel momento non erano presi molto sul serio. Per il video c’era Schum con tutta la sua produzione audiovisiva. Poi c’era Blase che riprendeva in video i visitatori e tutti gli artisti e ne ha fatto un archivio sui loro pensieri della documenta. Brock ha fatto la sua scuola di visitatori con diapositive. Non c’era il teatro per una questione economica per cui ho deciso di rimanere dentro la scatola perché solo rimanendo all’interno della scatola se ne può approfondire il contenuto.
AC.G.: Quindi lei pensava al ritorno al museo come luogo che dà identità.
H.S.: Sì perché nelle ossa avevo ancora l’esperienza di When Attitudes… dove quello che dà il permesso diviene il colpevole di fronte alla società per cui quando Byars ha fatto le sue apparizioni sul tetto e sull’albero c’era sempre la polizia, o quando Cotton era sempre lì fuori con il suo rikiki, c’era la polizia. Ho dovuto sempre tirare fuori dai guai questi artisti.
A.C.G.: Quindi, di nuovo il museo.
H.S.: C’era questa moda di dire che ora l’arte si deve giocare in strada. Quando sono andato ad Hannover le sculture erano tutte rotte in un giorno. Non a Kassel, quindi. Hannover lo ha già fatto e non andiamo con questi materiali fragili fuori. Poi lasciando l’Orangerie e il parco vuoto si aprivano delle possibilità: Rebecca Horn ha fatto queste maschere alte nel parco; poi Joan Jonas e Rinke. Non erano sculture ma avvenimenti nel parco. Oppure come Dieter Meier che ha fatto questa lastra davanti alla stazione di Kassel. C’era quindi la possibilità di arricchire in ogni direzione, avendo fatto questa struttura espositiva.
A.C.G.: Lei dice che l’arte degli anni Settanta non è più politica ma è introspettiva.
H.S.: Io ho detto che il valore politico dell’arte è la sua fragilità, perché è attraverso la sua fragilità che si stacca completamente dal contesto industriale e produttivo che conosciamo e questo è il suo valore politico.
A.C.G.: Se ripensa oggi alla documenta che ha curato?
H.S.: Ho sempre detto che era la sola possibile e ora ci credo; è la migliore! È chiaro che sono sempre stato privilegiato, ma ho anche sempre lavorato molto per esserlo. Avendo vissuto l’ultima rivoluzione nell’arte con When Attitudes… e avendo all’epoca scelto tutti artisti che poi sono rimasti, che oggi sono maestri, non ho mai fatto esperienza di cosa significhi lavorare con artisti conosciuti e quindi corrergli dietro.